Ogniqualvolta che a una nave ricolma di immigrati clandestini viene impedito di attraccare sulla coste italiane, spunta fuori uno storico, un giornalista, un politico più o meno televisivo, che si spende in un paragone grottesco tra gli ebrei durante la Shoah e gli immigrati fermi su un’imbarcazione sicura a largo delle nostre coste.
Non si tratta solo di parallelismi iperbolici, ma di manifestazioni di un convincimento più profondo, ossia che i confini nazionali e le frontiere siano intrinsecamente «fascisti» o «nazisti». Tale idea non nasce casualmente, ma è il prodotto purissimo di un certo modo, estremamente riduttivo, d’interpretare lo sterminio degli ebrei d’Europa, che fa del nazionalismo (e dell’idea stessa di «nazione») l’unico colpevole.
Gli intellettuali progressisti hanno tratto dalla Shoah una e una sola lezione: porre fine alle identità nazionali e agli stati nazionali. L’antinazionalismo di principio, declinato nelle forme del sostegno incondizionato all’immigrazione incontrollata e del culto laico di una non meglio precisata «umanità», è uno degli assiomi granitici della grammatica memoriale.
Non a caso, i più appassionati paladini dell’immigrazione massiva sono anche, invariabilmente, anti-israeliani, poiché vedono nel sionismo una pericolosa forma di «nazionalismo» intenta a «sterminare» i palestinesi. È impossibile, infatti, tenere il conto dei numerosi tentativi, politici e storiografici, di equiparare il sionismo al fascismo e al razzismo, spesso con esiti nefasti.
Se si guarda alla genesi del fenomeno fascista e alle radici ideologiche della Shoah in modo serio, ossia evitando qualunque forma di «reductio ad patriotum», ci si vedrà costretti a dover ridimensionare il ruolo giocato dal nazionalismo e a dover constatare quante somiglianze vi siano tra il nazismo e l’attuale progressismo antinazionale.
L’hitlerismo, infatti, come sottolineato anche dallo storico israeliano Yoram Hazony nel suo libro «Le virtù del nazionalismo», fu un imperialismo razzista, che collocava le razze all’interno di «grandi spazi» post-nazionali. Hitler, in caso di vittoria del Reich, avrebbe instaurato un impero pan-europeo «germanizzato». Il volontarismo nazista si scatenò contro tutte le antiche patrie carnali del Vecchio Continente, Cecoslovacchia e Polonia in primis, e trovò l’opposizione di migliaia di patrioti decisi a rivendicare la loro identità nazionale negata e schiacciata dal Terzo Reich.
Ma veniamo ora al tema relativo all’astrazione nota come «Umanità». Se si medita sulle opere di Primo Levi, esse ci insegnano che un uomo che è solo un uomo non è veramente un uomo. In Auschwitz si realizza l’umanità dei progressisti: la spoliazione di ogni specificità culturale, linguistica e persino sessuale; a causa delle privazioni alimentari e della rasatura, uomini e donne finiscono per assomigliarsi persino fisicamente. Il lager è un luogo «multiculturale», una disorientante babele, che induce alla nostalgia della lingua materna.
Nel campo, Levi, sentendo passare una locomotiva, sogna il treno del ritorno a casa: «sentirei l’aria tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, col viso nell’erba. E passerebbe una donna e mi chiederebbe: “Chi sei?” in italiano e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe e mi darebbe da mangiare e da dormire». «In italiano», ripete Levi, sofferente per la confusione linguistica.
Quella della persona sradicata, del profugo, oggi celebrata come intrinsecamente «positiva», è, secondo Hannah Arendt, la categoria più rappresentativa del Novecento. Il fanatismo della nazione ha privato alcuni delle radici, ma non ha creato uomini felici, bensì fantasmi disumanizzati. Liquidando la propria identità, la persona umana non conquista la pienezza della propria umanità. L’esule e l’apolide sono degli infelici. Come ha scritto un altro sopravvissuto alla Shoah, Jean Améry: «Sono sempre convinto, tuttavia, che occorra trovarsi in mezzo ai propri compatrioti nelle strade di un viaggio o di una città per meglio apprezzare i propri concittadini spirituali e che l’internazionalismo culturale possa prosperare soltanto all’interno di una sicurezza nazionale».
Arendt, Levi e Améry hanno subito le conseguenze del razzismo e del nazionalismo, ma non hanno dimenticato il valore delle radici e dell’identità. In altri termini, se è inumana la determinazione dell’uomo mediante il sangue e il suolo, non lo è meno l’esistenza dello sradicato. La Shoah è stata possibile perché gli ebrei non avevano uno stato nazionale. Gli uomini hanno bisogno di una patria per poter vivere sicuri e in pace.
È questa la grande lezione che i sionisti hanno tratto dal Novecento, diametralmente opposta a quella che ne hanno tratto gran parte degli europei. Se gli «umanitari» occidentali continueranno a opporre la terra agli uomini, finiranno per disintegrare entrambi.