Fino alla nascita dello Stato d’Israele, nel 1948, i rapporti tra i partiti della sinistra italiana e gli ebrei rimasero congelati nelle forme descritte nei precedenti articoli.https://www.linformale.eu/le-fondamenta-dellantisemitismo-progressista/ https://www.linformale.eu/lantisemitismo-dissolto-nel-crogiuolo/
Assorbita dalle questioni della ricostruzione, del referendum sulla forma dello Stato e dalle elezioni del 1948, la sinistra trascurò la questione dell’antisemitismo e quella del sionismo, come tutte le culture politiche del tempo.
Si ebbe una svolta in seguito alla risoluzione Onu 181 del 29 novembre 1947, che prevedeva la formazione di due Stati nazionali, uno arabo e uno ebraico, nella Palestina mandataria. I quotidiani della sinistra socialista e comunista lanciarono una martellante campagna anti-britannica. L’imperialismo inglese, con la sua spietata logica del «divide et impera» e le sue promesse non mantenute, era considerato il responsabile della intricata ed esplosiva situazione mediorientale.
Il sostegno al movimento sionista, allora egemonizzato dai socialisti del Mapai, il «Partito dei Lavoratori della Terra d’Israele», rifletteva l’adesione dei partiti socialisti e soprattutto comunisti alla politica estera dell’Unione Sovietica. Non bisogna dimenticare che il 14 maggio 1947, all’assemblea delle Nazioni Unite, il capo delegato sovietico, Andrei Gromyko, si espresse con parole adamantine: «Il fatto che nessuno stato europeo sia stato in grado di assicurare la difesa dei più elementari diritti del popolo ebraico, e di salvaguardarlo dalla violenza dei boia fascisti, spiega l’aspirazione degli ebrei a voler stabilire il proprio stato».
Il 15 maggio 1948, il laburista sionista David Ben-Gurion, proclamò la nascita dello Stato d’Israele. Come scrive la storica Alessandra Tarquini: «Coerentemente con la lettura dei fatti, il 15 maggio 1948, i partiti della sinistra accolsero con entusiasmo la nascita di Israele e si schierarono in sua difesa allo scoppio della guerra scatenata dagli arabi».
La nascita di Israele fu oggetto di una interrogazione parlamentare di Umberto Terracini, che chiese al governo di riconoscere lo stato ebraico. Il sostegno a Israele da parte dei partiti socialista e comunista si espresse anche attraverso un’esaltazione della società israeliana e, in particolar modo, della vita nei kibbutz, le fattorie collettive. Sebbene esse non furono mai un mito dell’immaginario della sinistra, suscitarono però un intenso interesse, non sempre positivo.
Solo la minoranza socialdemocratica, nella persona di Gustavo Sacerdote, manifestò ammirazione per i kibbutzim, connettendoli al primo sionismo socialista incarnato dalle figure intellettuali di Moses Hess e Bernard Lazare. La maggioranza socialista e comunista espresse riserve e scetticismo nei confronti delle comunità agricole collettive. Sacerdote vide nel collettivismo rurale israeliano un’alternativa tanto al sistema economico capitalista quanto alle involuzioni burocratiche del socialismo.
I dubbi e le critiche relative ai kibbutzim riguardarono, come da tradizione social-comunista, il risorgente nazionalismo ebraico e la rinascita della fede religiosa nelle comunità agricole. Ampia risonanza ebbe tra i militanti della sinistra italiana la tesi del trotskista Abraham Léon, secondo la quale il sionismo snaturerebbe il progetto socialista in Palestina.
Influenzato dalla suddetta tesi, un giovane collaboratore dell’«Unità», Alberto Jacoviello, inviò da Israele alcuni reportage molto critici verso il sistema dei kibbutz e attenti al problema dei profughi arabi. Non sfuggono al giornalista i legami della nazione ebraica con gli Stati Uniti d’America, che forniscono i mezzi agricoli con i quali si lavorava una terra che, effettivamente, era di proprietà della collettività. Ben più significativi furono i suoi scritti in merito al trattamento della popolazione araba, da lui descritta come discriminata dalla maggioranza ebraica.
I rapporti fra la sinistra italiana e Israele andarono incontro a una serie di difficoltà già alla fine degli anni Quaranta e non, come spesso si crede, dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 che, senza dubbio, determinò un cambiamento profondo, soprattutto nel linguaggio politico. Sebbene avesse ottenuto il sostegno dell’Unione Sovietica, al momento di dover scegliere il proprio collocamento negli schieramenti della guerra fredda, lo Stato ebraico optò per l’emisfero occidentale. Ciò determinò un deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. A esso seguì un immediato mutamento anche all’interno dei partiti socialista e comunista italiani. Dalle colonne dell’«Unità», così come da quelle di «Rinascita», giunsero pesanti critiche allo Stato d’Israele, accusato di nazionalismo e di razzismo. La crisi di Suez aprì una voragine tra la sinistra italiana e Israele. La decisione israeliana di schierarsi con le «potenze coloniali» anglofrancesi contro il socialista panarabo Nasser, protetto di Mosca, fece sì che i due principali partiti della sinistra si schierassero in favore del presidente egiziano.
I fatti di Suez incrinarono in modo irreversibile il modo in cui socialisti e comunisti concepivano Israele, tanto che nel decennale dalla nascita dello Stato ebraico, «l’Unità» invitò a distinguere gli ebrei combattenti nel ghetto di Varsavia e i sionisti del presente. Non meno aspri furono i socialisti. Come già avvenuto in passato, solo una minoranza espresse sostegno al sionismo e a Israele, e perlopiù in area socialdemocratica e repubblicana.