George Steiner, grande critico culturale ebreo, era figlio di un banchiere assimilato della Vienna malinconica dei kaffeehaus e della moda freudiana. Quest’uomo mite, che amava insegnare al suo bambino il latino e il greco, comprese che nella stanca e oscura Mitteleuropa, dietro al suo liberalismo educato, cresceva un odio antiebraico d’impressionante sistematicità, che aveva trovato una sua prima manifestazione nel sindaco antisemita Karl Lueger. Trasferitasi prima a Parigi e, successivamente, negli Stati Uniti, la famiglia Steiner sfuggirà alla notte di Valpurga del nazismo.
Cresciuto in un ambiente cosmopolita e poliglotta – sua madre iniziava una frase in francese, per poi proseguirla in tedesco e concluderla in inglese –, il giovane Steiner apprenderà presto l’amore per la cultura e la pluralità delle sue espressioni. A tal proposito, al giornalista Antoine Spire, dirà: «I miei primi passi sono stati in tutti i sensi quelli di un’infanzia privilegiata, protetta, in una casa piena di libri, piena di musica […] e un’educazione piena di speranza, di un umanesimo caratteristico di quel mondo, che univa Francia ed Europa centrale».
Dopo il diploma al liceo francese di New York – «nella cultura viennese, infatti, uno dei modi di accedere al piacere di un’altra civiltà era il francese» –, studierà all’università di Chicago, dove seguirà le lezioni del filosofo Leo Strauss su «Epistemologia e giustizia in Platone». Proprio lì, nel campus di quella città industriale, mentre spiega la poesia a compagni più grandi, molti dei quali reduci della guerra, prenderà coscienza della sua vocazione all’insegnamento e alla trasmissione del sapere. Usando una metafora di Puškin, si definirà «postino», portatore dei messaggi dei grandi geni.
Ha scritto molto, Steiner, il suo libro seminale è Vere presenze, nel quale afferma che senza un’autentica esperienza della profondità e della trascendenza, vale a dire di Dio, le creazioni artistiche sono impossibili. Si tratta di una sfida lanciata al pensiero debole e antimetafisico dei decostruzionisti e dei postmodernisti, che hanno spezzato il nesso tra «parole» e «cose». Il suo nemico era Jacques Derrida, il giocoliere filosofico che voleva superare il «logocentrismo» della cultura europea in nome di un non meglio precisato «decentramento». Steiner liquiderà le vuote pretese postmoderne con il termine «logonichilismo».
In qualità di critico culturale era spietato. Odiava la civiltà dei consumi poiché ha «spalmato di burro le anime degli uomini». Oltre vent’anni fa, a Torino, prese di mira la nascente era digitale: «I mondi del cyberspazio e della realtà virtuale saranno invasi dai programmi di grafica e rivestiti di una pseudoautorità, di suggestioni e di esempi che giustificano la bestialità nei confronti di altri esseri umani, di noi stessi – la ricezione, il piacere del trash è automutilazione dell’anima». Amava la musica classica e non esitò a definire il rap come «la voce stessa della violenza, della brutalizzazione dell’individuo».
Non era un umanista ottimista sulla scia di Stefan Zweig o Roman Rolland, ma un amante della cultura consapevole della contiguità tra civiltà e barbarie. Steiner ha a lungo cercato di capire «perché l’alta cultura non abbia potuto arrestare la barbarie, perché ne sia stata spesso l’alleata, lo scenario, il coro». Pessimista ed elitario, in merito alla Shoah disse: «il sadismo scendeva nelle vie uscendo dai teatri e dai musei» e «leggere Goethe, o Rilke, godere di un passaggio di Bach, di Schubert, è possibile nello stesso momento in cui si mandano uomini a morire».
Affascinante e complesso è il rapporto di Steiner con l’ebraismo e Israele. Era fiero di essere un ebreo della diaspora, di appartenere al «club» di Freud e Proust. In un controverso romanzo, Il processo di San Cristobal, fa dire ad Adolf Hitler: «L’ebreo ha inventato la coscienza e ha fatto dell’uomo un colpevole. L’ebreo era perciò la cattiva coscienza dell’umanità e per questo bisogna sbarazzarsene». Hitler incarna l’uomo che non si domanda il senso della sua esistenza, che rifiuta di vivere una «vita esaminata». Amava il popolo del libro, «malato di pensiero», che in prossimità delle camere a gas disputava intorno al Talmud.
Al tempo stesso, però, non apprezzava Israele, che giudicava «un miracolo triste». Era l’alterità degli ebrei, la loro «erranza» che spiegava, secondo Steiner, il loro contributo alla civiltà. La patria degli ebrei è il libro, non il suolo; le radici sono nel cielo e non nella terra. Questa era l’obiezione del celebre critico al sionismo. Legato a una concezione romantica del Galut, per lui il nazionalismo era «madness». Il popolo ebraico, dandosi uno Stato nazionale, si assumeva la responsabilità di tutti i peccati derivanti dal possedere una sovranità nazionale: «Questo Stato di Israele torturerà altri esseri umani. Dovrà farlo per sopravvivere». La patria ebraica doveva rimanere un’impresa letteraria, una figura retorica e nulla più. Il sionismo, realizzando uno Stato, avrebbe corrotto la diasporica anima ebraica. William Kolbrener, sul Tablet, ha detto che «Gli scritti di Steiner sullo Stato d’Israele forniscono un primo assaggio delle dinamiche della forma specifica di antisemitismo laico che ha affascinato tanti progressisti nel mondo accademico e tra i membri del Partito laburista britannico, nonché, sempre più, i progressisti americani».
Imbevuto di cosmopolitismo, rifiutava i nazionalismi e con essi il sionismo; ebbe, però, l’onestà di dichiarare: «Israele ha il diritto di prendermi a schiaffi, di dirmi: è molto semplice per te, a Harvard, a Cambridge o a Parigi, parlare così: ma se tutto ricominciasse, è qui che i tuoi figli troverebbero rifugio».
George Steiner aveva come patria quella «Repubblica delle Lettere» evocata da Marc Fumaroli. Viveva, contemporaneamente, nell’Atene classica, nella Francia di Corneille, nella Firenze medicea e nella Belle Époque. Gli israeliani, per lui, non abitavano in modo appropriato il mondo. Conscio che la sopravvivenza del popolo ebraico dipende dall’esistenza dello Stato d’Israele, quest’ultimo, in quanto Stato nazionale armato, gli appariva comunque un’assurdità estranea ad alcuni degli elementi più radicali e più umani dello spirito ebraico.
È un vero peccato che un uomo ricco di spirito e d’intelligenza come George Steiner si sia accodato a coloro che ritengono Israele un errore, un inciampo, nella storia dell’ebraismo e dell’umanità.