La sconfitta araba seguita alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 fu un trauma di proporzioni gigantesche per arabi e musulmani, il cui riverbero si estende ancora oggi. Gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, con appoggio di contingenti sauditi, iracheni e libanesi riuniti intorno alla figura del rais egiziano Gamal Abdel Nasser, avevano l’intenzione di annientare lo Stato ebraico. La loro disfatta, in un lasso di tempo assai veloce, distrusse completamente la già offuscata reputazione di Nasser insieme alle sue ambizioni di porsi a guida del mondo arabo e, al contempo, inferse un colpo mortale al panarabismo. Da queste macerie fumanti, Israele emerse vittorioso e nacque l’epica della guerra vinta “miracolosamente” che aveva consentito a Israele di catturare Gerusalemme Est, di entrare in Cisgiordania e Gaza, di estendersi sulle alture del Golan e nella penisola del Sinai.
La guerra che Israele avrebbe dovuto perdere le sarebbe costato un odio imperituro trasformatosi nei decenni in una demonizzazione perenne. E’ infatti dalla sconfitta araba del 1967 che prenderà l’abbrivio l’implacabile macchina propagandistica in cui Israele viene presentato al mondo come Stato criminale mentre gli arabi, e nella fattispecie i palestinesi, sono proposti come vittime. In questo quadro ribaltato si è capovolto anche l’assunto per il quale sarebbero i vincitori a scrivere la storia. In realtà si è tentato e ancora si tenta di riscriverla da parte dei vinti in modo da fare apparire l’aggredito l’aggressore e l’aggressore l’aggredito. Come ha scritto Gabriel Glickman:
“Il primo passo nell’assolvere i leader arabi per la responsabilità del conflitto-in modo speciale il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il quale diede il via al corso degli eventi che portarono alla guerra-fu di presentarli come vittime della loro del tutto comprensibile, se non estremamente sfortunata reazione a un imminente attacco israeliano nei confronti della Siria. Prendendo per buona la smentita di Nasser a guerra finita di non avere avuto l’intenzione di attaccare Israele, occidentali acculturati, intellettuali, esperti del Medio Oriente e giornalisti, scusarono la sua caparbia spinta alla guerra come un inevitabile mettersi in mostra al fine di puntellare la propria posizione nei confronti della critica costante da parte degli stati arabi conservatori e delle componenti più militanti all’interno della sua amministrazione”.
Giustificazionismo e revisionismo necessario per riscattare l’orgoglio arabo. Tassello utile nell’opus di riscrittura della storia di Israele sotto forma di grande romanzo criminale. La realtà racconta tuttavia altri fatti, si incarica pervicacemente di smentire la vasta falange organizzata dei mistificatori. La smisurata ambizione di Nasser, la sua protervia, abbinate a una radicale imperizia gestionale della strategia che avrebbe dovuto risolvere da parte araba la “questione ebraica” in Medio Oriente, sono alcuni dei fattori che intrecciati tra di loro lo condussero alla sconfitta.
Il casus belli del conflitto fu la chiusura degli stretti di Tiran alle navi israeliane che avvenne il 22 maggio 1967, atto conclamato della hubris egiziana successivo alla richiesta dell’Egitto all’ONU, il 16 e il 18 maggio, di allontanare dal Sinai e da Gaza i 3400 uomini della forza di interposizione internazionale sotto la sua egida. Nelle parole di Benny Morris:
“Retrospettivamente, si può dire che quella fu la mossa decisiva che rese inevitabile il conflitto, anche se non sembra che Nasser se ne sia reso conto. In seguito egli avrebbe lasciato capire-nel discorso del 26 maggio ai capi dei sindacati arabi-che le iniziative culminate nella chiusura degli stretti rientravano in un piano volto a causare la guerra con Israele, al fine ultimo di ‘liberare la Palestina’“.
Siamo qui al centro della questione, nel suo plesso. Israele doveva essere cancellato dalla mappa. Nessuna guerra difensiva, nessuna deterrenza, ma la volontà chiara e distinta di cancellare l’”illegittimo” Stato ebraico da terra considerata “islamica”.
D’altronde, che questo fosse l’intento è attestato copiosamente e senza sosta da innumerevoli dichiarazioni. Lo stesso Nasser non mancò certo di renderlo esplicito più volte e in modo particolare il 28 maggio del 1967 in una conferenza stampa alla presenza di centinaia di giornalisti convenuti da tutto il mondo.
“L’esistenza di Israele è di per sé un’aggressione … quello che è successo nel 1948 è stata un’aggressione – un’aggressione contro il popolo palestinese. … (la crisi si è sviluppata perché) Eshkol ha minacciato di marciare su Damasco, occupare la Siria e rovesciare il regime siriano. Era nostro dovere venire in aiuto del nostro fratello arabo. Era nostro dovere chiedere il ritiro di UNEF. Quando l’UNEF ha abbandonato le sue posizioni, avevamo il dovere di andare presso il Golfo di Aqaba e di far tornare tutto com’era quando occupavamo Aqaba nel 1956 ”.
Spicca in questa dichiarazione la menzogna secondo la quale Israele volesse rovesciare il regime siriano. Il presupposto per l’avviarsi della crisi fu una pura fiction confezionata dai sovietici, i quali, il 13 maggio, informarono ufficialmente l’Egitto che Israele stava ammassando truppe al confine siriano in vista di una invasione. Ben presto il Capo di Stato Maggiore egiziano, Muhamed Fawzi, recandosi a Damasco dovette constatare che l’informativa sovietica era falsa:
“Non trovai nessun dato concreto a sostegno delle informazioni ricevute. Al contrario, le fotografie aeree scattate dai ricognitori siriani non rivelavano alcuno spostamento dei reparti [israeliani] dalla disposizione normale”.
Nonostante questo, come scrive Benny Morris, “Le divisioni egiziane dilagarono nel Sinai”. Da quel momento in poi la situazione si sarebbe rapidamente avvitata su se stessa fino al suo culmine, lo scoppio della guerra il 5 di giugno del 1967.
Questo articolo è apparso nel 2017 su Progetto Dreyfus per il cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni.