Il 15 novembre del 2017 ci lasciava Rav. Giuseppe Laras, una delle figure più eminenti dell’ebraismo italiano del dopoguerra.
Fuori da ogni facile retorica, Laras fu un grande umanista religioso capace come pochi, con la sua vasta cultura e sensibilità, di fare sentire la sua voce mai banale, frequentemente scomoda sia dentro il mondo ebraico che al suo esterno.
Nato a Torino nel 1935, questo “Figlio della Shoah” come egli stesso si definiva, ricoprì nella sua vita illustri cariche: Rabbino Capo di Ancona dal 1959 al 1968, di Livorno dal 1968 al 1980, quindi di Milano dal 1980 al 2005, per poi approdare nuovamente ad Ancona nel 2011. Ma Laras fu anche Direttore del Collegio Rabbinico Italiano, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini di Italia, e Presidente del Bet Din, il Tribunale Rabbinico di Milano e poi del Centro-Nord Italia.
Di lui, nel quarto anniversario della sua scompara, desiderio ricordare anche il grande impegno svolto nel dialogo iterreligioso, ebraico-cristiano, che ebbe tra i suoi interlocutori più autorevoli l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, a cui Laras era legato da amicizia e stima.
Negli ultimi anni della sua vita lo sguardo di Laras sul presente si era fatto inquieto e tale a causa della lucidità con cui vedeva con sgomento il riaffacciarsi dell’antisemitismo declinato, sempre più frequentemente, sotto forma di antisionismo. Non gli sfuggivano le modalità con cui, nella criminalizzazione di Israele, si ripresentavano e si ripresentano le antiche e perenni accuse nei confronti degli ebrei, di essere ladri, omicidi, complottisti, razzisti, l’abituale corteo di figure nere trasferite da essi agli israeliani. Così come non gli sfuggiva la profonda crisi della nostra civiltà incapace di chiamare le cose con il loro nome, arrendevole al politically correct, vergognosa di affermare la propria identità, di rivendicare il grande portato storico-culturale delle proprie radici ebraico-cristiane.
Laras, fine intellettuale, come tutti i veri intellettuali non fu mai un perbenista, un confezionatore di pensierini comme il faut, tanto di moda oggi. Tutt’altro. I suoi ultimi interventi pubblici furono sempre più mordaci e frequentemente caustici. Nell’ultimo testo da lui scritto e reso pubblico poco dopo la sua morte, una specie di testamento, volle nuovamente evidenziare le sue preoccupazioni:
“Oggi sono testimone del sorgere di una nuova ondata di antisemitismo (specie nella sua ambigua forma di antisionismo), del tradimento delle sinistre e del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale. Nuove sfide e nuove angosce si stanno proiettando sul nostro mondo. Dell’Europa occidentale che abbiamo conosciuto non sappiamo quanto rimarrà e molto muterà, con disillusioni e, forse, speranze: la strada particolare di noi ebrei, come sta già avvenendo in Francia e Belgio, nonché nel consesso internazionale, è probabile che sia in salita e strettissima. Tuttavia, oggi la nostra esistenza non è più, ringraziando il Santo e Benedetto e l’impegno di moltissimi, in totale balia delle Nazioni”.
Non ci sono sconti in queste parole calibrate, nessun facile ottimismo, ma uno sguardo sconfortato e terso sulla realtà. Una frase in particolare mi preme sottolineare, l’ultima del paragrafo. L’esistenza ebraica, in virtù di un utopia e di un movimento di rinascita nazionale sorto al crepuscolo dell’Ottocento, non è più subordinata alle decisioni e alle leggi di paesi altri, i quali, nel corso della storia, quando lo hanno desiderato e determinato, hanno trasformato gli ebrei in capro espiatorio. Il popolo ebraico ha uno Stato. Israele è, per ogni ebreo, casa e salvaguardia, possibilità di vita finalmente sottratta all’arbitrio altrui. Questo, Rav. Giuseppe Laras non lo ha mai dimenticato.