Editoriali

Basta distinguo: la Palestina è una mera espressione geografica

Il 27 gennaio di ogni anno, anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si celebra la Giornata della Memoria, una ricorrenza che fu stabilita, a livello planetario, dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 perché nessuno dimentichi l’orrore perpetuato dai nazisti nella pianificazione dello sterminio della popolazione ebraica. Inutile ricordare come la Shoah sia stata una tragedia epocale, un crimine verso un popolo, reo solo di praticare una religione, e, non è eccessivo dire, verso tutta l’umanità.

Quello nazista non fu il primo tentativo di genocidio, la storia ne ricorda altri, come quello della tribù ebraica dei Qurayza ad opera di Maometto o il tentato sterminio degli Armeni operato dai turchi durante la Prima Guerra Mondiale ad esempio, ma, sicuramente, è stato quello a cui si può attribuire una pianificazione metodologica e la più ampia documentazione esistente. L’Olocausto ebraico è la tragedia che si erge da monito a tutte le generazioni postere perché cose del genere non possano più accadere.

Puntualmente, però, già nel giorno stesso della commemorazione ma, ancor più, nei giorni seguenti sorgono diversi “distinguo” da parte di diverse persone che hanno a cuore la causa di un altro “popolo” negletto e perseguitato, così si dice, proprio da coloro che subirono il più grande progetto di sterminio di massa: i palestinesi.

Tutti vediamo i reportage sui telegiornali degli attentati in Israele, tutti vediamo le scie dei Qassam che, dalla Striscia di Gaza o dai campi profughi in Libano, si abbattono sui centri abitati al confine, leggiamo, forse, degli attentati suicidi degli shahid nelle piazze o sui mezzi pubblici nelle città israeliane ma la focalizzazione di buona parte dell’opinione pubblica è verso le misure di sicurezza del piccolo stato mediorientale, dei raid per distruggere le postazioni missilistiche, al ricordo del massacro di Sabra e Shatila (di cui, erroneamente, molti incolpano l’esercito israeliano e l’allora ministro della difesa Ariel Sharon, quando gli autori furono falangi armate libanesi), eccetera.
Tutti, o quasi, si dolgono per le azioni dei nazisti ma, troppi, condannano l’esistenza stessa di Israele come stato nato su terre sottratte ai legittimi proprietari, condannando la nazione palestinese alla fuga e a una vita di stenti, quando, invece, la storia è molto diversa.

Innanzitutto bisogna ricordare che una nazione palestinese non è mai esistita prima degli ultimi anni, le terre dove oggi sorge Israele erano terre dell’Impero Ottomano dove già esisteva una certa minoranza ebraica accanto alla popolazione araba. Con la fine della Prima Guerra Mondiale quella zona fu affidata, con mandato della neonata Società delle Nazioni, all’Inghilterra perché ne gestisse il passaggio dalla dominazione turca alla creazione di nuove entità nazionali. Negli anni intermedi tra i due conflitti mondiali sulle terre in prossimità del Giordano cominciò una fitta immigrazione ebraica, in fuga dal clima sempre più ostile che si respirava nella Mitteleuropa; questi acquistarono diversi appezzamenti di terreno, soprattutto desertico, e cominciarono la bonifica e gli investimenti necessari per renderli fertili e abitabili attraverso un’agenzia apposita creata in quegli anni.

Tra il 1919 e il 1947 la popolazione ebraica, che si stabilì nelle terre acquistate nel corso degli anni nella regione della Palestina, aumentò da poco più di 80’000 persone a oltre 900’000. La forte immigrazione, unita ad un incremento della disoccupazione tra la popolazione araba, crearono diversi attriti tra la maggioranza araba e i coloni, cosa che portò anche a scontri che colpirono pure insediamenti ebraici preesistenti rispetto all’ondata migratoria di quegli anni.

La situazione critica si acuì quando, con la fine del mandato britannico fu costituito lo stato di Israele sui territori già di proprietà dei coloni. Nel 1947 la neonata ONU approvò una Risoluzione (la numero 181) che prevedeva la creazione di uno stato ebraico che avrebbe occupato circa il 56% del territorio dell’ex Mandato Britannico e di uno Stato arabo sul territorio restante. La città di Gerusalemme e i suoi dintorni, con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, avrebbe dovuto diventare una “città libera” sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite.
Così non fu.

Già prima della nascita formale di Israele gli stati arabi fomentarono diverse sommose che divennero una vera e propria “guerra civile” che spinse alla guerra il neonato stato già nell’anno di fondazione, il 1948, contro i principali stati arabi della zona: Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania. Gli invasori furono bloccati dall’esercito israeliano ma, con l’armistizio Israele occupò la Galilea, l’Egitto la Striscia di Gaza e la Transgiordania la Cisgiordania creando, così, lo stato di Giordania.

I combattimenti spinsero oltre 600’000 ebrei ad abbandonare le loro case nei paesi arabi per rifugiarsi in Israele e oltre 700’000 arabi a fuggire dalle proprie case per rifugiarsi… in campi profughi.
Questi ultimi, poi, furono vittima di un grave inganno, perpetuato dalle nazioni arabe ai loro danni e continuato da uomini senza scrupoli, poi, creando la “questione palestinese”.

Da notare che, finora, non è mai stato usato il termine “popolo palestinese” perché, a tutti gli effetti, questo non è mai esistito se non in tempi recenti, formato da quelle centinaia di migliaia di persone che credettero alla truffa dei nemici di Israele che li convinse che, restando nei territori del neonato stato o in quelli occupati dopo la guerra innescata dalle nazioni arabe, sarebbero stati vittima di soprusi ed espropri, finanche allo sterminio esattamente come gli ebrei europei sotto il nazismo. I profughi, quindi, si rifugiarono in enormi campi, tra Libano, Giordania e Gaza formando l’embrione di quel popolo di “munizioni umane” pronte alla guerra che, oggi, sono divenuti i palestinesi.

Non tutti, però, credettero all’inganno e molti restarono nelle proprie terre divenendo, poi, cittadini israeliani. Oggi, quasi un quinto degli abitanti di Israele è di etnia araba, si parla di cittadini al pieno dei loro diritti con, inoltre, delle guarentigie politiche per la rappresentanza delle minoranze in Parlamento e negli altri organi dello Stato.

Diciamo, però, che la situazione innescata dall’azione dei Paesi arabi nel 1948, la politica seguita dall’OLP di Arafat per anni (fino alle aperture degli anni ’90, con gli accodi di Oslo, che valsero al leader arabo anche un premio Nobel per la Pace insieme all’ex Premier israeliano Rabin) e l’attività di Hamas attuale hanno reso la possibilità di una vera pace nell’area in un limbo, forse, perenne, creando un popolo che prima non esisteva, quello Palestinese, unito solo dallo status di eterno profugo e di “arma umana” nelle mani dei nemici di Israele e di tutta la nazione ebraica.

I già citati accordi di Oslo del 1993 avrebbero potuto essere il prodromo per la creazione di uno stato arabo nella zona, come già prevedeva il progetto originario degli anni ’40, la soluzione condivisa era soddisfacente per entrambe le parti, come da dichiarazione dello stesso Arafat e dei rappresentanti israeliani, e la nuova direzione di al Fatah, l’organizzazione politica che nasce dall’OLP e persegue l’obiettivo della creazione dello stato arabo-palestinese, persegue nel lavoro per ottenere il risultato dei due stati per i due popoli, esattamente come vorrebbe anche Israele ma qualcuno, lo vediamo costantemente anche attraverso i nostri media ha un’idea diversa. Un’idea condivisa anche da troppe frange politiche qui in occidente che dimostrano come l’antisionismo altro non sia che la moderna forma dell’antiebraismo che fu una delle cause di uno dei più grandi crimini mai commessi sul pianeta, quella Shoa che nessuno dovrebbe mai dimenticare perché orrori del genere non si ripetano mai più.

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