Nei giorni scorsi, si è appreso dal Jerusalem Post, che l’azienda israeliana di distribuzione alimentare Rami Levy ha fatto causa al Consiglio ONU per diritti umani in merito alla pubblicazione della “blacklist” presso un tribunale di Gerusalemme. Questo è il primo concreto passo per scardinare la decisione illegale di questa organizzazione, manipolata politicamente da dittature con la compiacenza europea, di creare una autentica lista di proscrizione di aziende operanti in Giudea e Samaria.
La tesi dell’azienda israeliana è molto semplice: la famigerata blacklist comprende 94 aziende israeliane – su un totale di 112 – tutte di proprietà di ebrei israeliani, mentre almeno altre 11 aziende israeliane operanti nei territori di Giudea e Samaria, ma di proprietà di arabi, non sono state incluse nella lista. Perché questa differenza di trattamento se le attività israeliane sono accusate di ledere i diritti dei palestinesi?Inoltre, la Rami Levy tramite i suoi legali, fa osservare che tutti i dipendenti delle varie filiali, sia arabi che ebrei, hanno lo stesso trattamento economico che è pari a tre volte quello percepito dai lavoratori palestinesi nei territori amministrati dalla ANP. Per cui non vi sono dubbi che il criterio utilizzato dal Consiglio dei diritti umani, per redigere la lista, è esclusivamente di carattere etnico e religioso.
Entrando in merito alla “blacklist” pubblicata dal Consiglio ONU per diritti umani. A esaminarla si scopre che il tono utilizzato è più “mafioso” che giuridico: infatti non c’è nessun implicito riferimento a violazioni del diritto – non essendocene le basi – ma si fanno velate allusioni che le attività di queste aziende impegnate in attività economiche nei “territori occupati” potrebbero incorrere in procedimenti legali se si evidenziassero violazioni del diritto internazionale. Come sempre, in questi casi, non vi è nessuna menzione a nessuna norma del diritto internazionale che sarebbe, eventualmente, violato. Il vero intento è palese: spaventare le aziende per indurle a cessare ogni tipo di attività economica (ad esclusione di quelle di proprietà araba).
E’ doveroso sottolineare che nessuna norma del diritto internazionale prevede l’illegalità di attività economiche, commerciali o industriali in territori contesi o occupati (con l’eccezione dello sfruttamento coatto della popolazione o l’esproprio di beni privati come ad esempio nel caso di Cipro nord) da parte della potenza occupante. Infatti, nessuna obiezione, ad esempio, è mai stata fatta alla Turchia per l’occupazione di Cipro Nord o al Marocco per l’occupazione del Sahara Occidentale. Ma neanche è mai stata fatta ad imprese economiche francesi operanti nella Saar durante l’occupazione francese, o nel caso di imprese USA a Berlino – occupata dagli americani fino al 1990 – o in Giappone. Questa “non regola” è, solamente, applicata a Israele senza che se ne conoscano le basi giuridiche. Oltre a questo, la stessa definizione di “territori palestinesi occupati” utilizzata dal Consiglio per i Diritti Umani non ha nessuna base legale nel diritto internazionale, in quanto Israele non ha mai occupato nessun territorio palestinese ne tanto meno si può definire la situazione di Giudea e Samaria come di territori in “stato di belligeranza” visto che l’attuale situazione è disciplinata nei minimi dettagli – dal 1995 – da accordi sottoscritti tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese.
E’ del tutto evidente che la lista è stata fatta esclusivamente per recare danno d’immagine (ed economico) alle aziende additate come “violatrici” dei diritti umani e facilitarne il boicottaggio. La legge israeliana (Defamation Law) – come le norme internazionali del resto – proibisce le discriminazioni su base etnica o religiosa anche per le attività economiche. Il compito del giudice che affronterà il caso non sarà semplice, viste le sicure pressioni politiche che si scateneranno, ma è molto importante che la giustizia prevalga su logiche che con il diritto non hanno niente a che vedere ma invece hanno base comune con la discriminazione.