Su Moked del 17/08/20 è possibile leggere un articolo su Hannah Arendt a firma di Daniela Gross. Si tratta dell’ennesimo trafiletto celebrativo, tutto teso a esaltare la figura della filosofa ebrea. La Arendt è diventata un feticcio del pensiero di sinistra, che ha ridotto la sua opera filosofica al titolo “la banalità del male”, da impiegare, rigorosamente, contro quanti si oppongono all’immigrazione clandestina di massa, all’islamizzazione o ad altre manifestazioni delle “magnifiche sorti e progressive”.
Con buona pace di coloro che ne hanno fatto un santino, la filosofa non era una pensatrice riducibile a un facile slogan né una giornalista coerente e profetica. Sotto il cielo dei suoi pensieri regnava una notevole confusione e le formule da lei coniate sono semanticamente efficaci, ma talvolta intellettualmente ben poco fondate. Le sue, poche, buone idee sono “prese in prestito”, per non dire scopiazzate, da altri autori, quali: Leo Strauss e Georg Jellinek.
A Berlino, nel 1933, porta avanti, coraggiosamente, una missione per il suo amico Kurt Blumenthal, il leader dei sionisti tedeschi. Il suo compito è di raccogliere materiale dagli archivi di Stato, atti che documentino le misure antiebraiche del governo nazista, da presentare al Congresso Sionista di Praga. La Arendt verrà catturata, arrestata e mandata in prigione per otto giorni. Decide di lasciare la Germania e inizia a lavorare per alcune organizzazioni sioniste. Le sue posizioni cambiano durante l’esilio statunitense, dove si costruisce una solida carriera di giornalista sionista e poi, progressivamente, sempre più antisionista e, talvolta, velatamente antisemita. Accusa i sionisti, soprattutto i revisionisti, di volersi alleare coi nazisti per far fuggire gli ebrei dalla Germania e di voler dar vita a uno Stato solo ebraico. Sostiene che la rivolta del Ghetto di Varsavia sia iniziata contro la polizia ebraica, che i sionisti ingannano il popolo ebraico, che sono fascisti e perseguitano gli arabi. Taccia Vladimir Jabotinsky di “fascismo” e “terrorismo”.
La Arendt accatasta menzogne su menzogne, sbaglia ogni pronostico politico e la sua verve polemica trabocca per arrivare a dichiarazioni estreme. Mentre la guerra in Europa volge al termine, rompe definitivamente con il sionismo, con quel movimento che aveva definito di “liberazione nazionale”, per accusarlo di nazionalismo estremo e razzismo. Sul Menorah Journal, torna ad attaccare ancora i revisionisti “fascisti” e i sionisti in generale. Si schiera pubblicamente contro lo Stato d’Israele e ricusa la sua fondazione. Si spende per abolire il neonato Stato ebraico e sostituirlo con un protettorato dell’ONU. Alla vigilia delle purghe antisemite dell’Unione Sovietica staliniana, afferma con sicumera che l’URSS è l’unico Stato ad aver eliminato l’antisemitismo. Hans Jonas ha scritto, nelle sue memorie, di essere rimasto scioccato dal suo acceso tono antisionista e soprattutto da quella che ha definito “l’ignoranza di Hannah Arendt sulle questioni ebraiche”.
Ma soprattutto, sembra assolvere il popolo tedesco dalle sue responsabilità, facendo cadere la responsabilità morale della Shoah solo su Hitler e le alte sfere del regime. La sua tesi sulla “banalità del male” sono la conseguenza diretta di un punto di vista anti-ebraico e antisionista decisamente radicale. Theodor Lessing l’avrebbe bollata come “ebrea che odia sé stessa”.
L’argomento della banalità non è altro che l’accettazione acritica della difesa adottata dai nazisti in tribunale: eravamo solo ingranaggi di una macchina complessa, ci siamo limitati a eseguire gli ordini e i comandi. Una tesi smentita dai fatti. La Arendt non aveva capito la natura ideologica del nazismo né aveva inteso Eichmann. L’SS-Obersturmbannführer non era un grigio e anonimo burocrate, ma il membro dell’aristocrazia del Terzo Reich, che operò con entusiasmo, efficienza e fanatismo. Eichmann era imbevuto di antisemitismo e studiava l’ebraismo per “conoscere il nemico”. Tutti i gerarchi nazisti, privatamente, si sono vantati delle loro azioni e ne hanno fatto motivo di vanto. I nazisti erano tutto fuorché “banali” assassini. Proprio da queste considerazioni discende l’idea che la Shoah non abbia dei veri responsabili né dei veri carnefici, tuttalpiù delle marionette incapaci di intendere e di volere. Ma la Arendt non si limita a liquidare secoli di antisemitismo tedesco, che attraversa la Germania da Lutero a Kant, e a dipingere i teutonici come un ammasso di manichini inidonei a pensare, ma addossa agli ebrei la responsabilità del loro sterminio. Quale sarebbe la loro colpa? Tentare di mantenere un briciolo di organizzazione e negoziare col totalitarismo in camicia bruna nel tentativo di salvare la pelle. Accettare ricatti e richieste pur di ritardare il momento dello sterminio. Una decisione razionale che la filosofa bolla come collaborazionismo, stessa accusa che fa cadere come una scure sul collo dei tanto vituperati sionisti.
L’attenzione della Arendt si concentra proprio sulla partecipazione delle comunità ebraiche allo sterminio, arrivando a sostenere che i nazisti non avrebbero mai potuto incenerire sei milioni di ebrei senza l’aiuto delle comunità israelitiche. Una lettura tendenziosa, che non tiene conto né della resistenza ebraica al genocidio né degli studi del grande storico Léon Poliakov, che esclude una grande partecipazione degli Judenrat, i Consigli ebraici, ai piani di ghettizzazione e deportazione. Dal radar delle riflessioni arendtiane, scompare la lotta antinazista condotta degli ebrei dell’Europa orientale. Non solo la gloriosa rivolta del ghetto di Varsavia, ma anche quelle dei ghetti di Leopoli, Cracovia, Vilnius, Łódź e Częstochowa. La sopravvivenza eroica dei fratelli Bielski o l’insurrezione del campo di sterminio di Treblinka. La filosofa vede gli ebrei, quasi esclusivamente, come complici della loro stessa fine. Insomma, in definitiva, Hannah Arendt giustifica le belve bionde e condanna le comunità ebraiche.
Lo storico Walter Laqueur, figlio di vittime della Shoah, scrisse della mancanza di comprensione nei loro confronti, che si evince dalla lettura di Eichmann a Gerusalemme. La vicinanza alle vittime presente nel libro è obnubilata dalle accuse a quello che Arendt considerava come il grande errore delle comunità destinate allo sterminio: l’aver stabilito rapporti con le autorità naziste nel tentativo di scampare alla morte.
Ma forse, c’è una ragione più profonda e oscura in questa assenza di empatia. Come tutti gli amanti dell’umanità, amava tutti per non amare nessuno. Quando le chiesero se sentiva un minimo di solidarietà coi suoi connazionali ebrei, diede una risposta di agghiacciante cosmopolitismo: “io non amo in particolare nessun popolo, non vedo perché dovrei trovare simpatia per il popolo ebraico”. Non a caso, Gershom Scholem le imputò la mancanza dell’Ahavat Israel, dell’amore per il popolo ebraico.
Hannah Arendt è una figura ambigua. Dal suo rapporto con Martin Heidegger eredita il disprezzo per gli ebrei heimatlosigkeit, ovvero “senza patria”. La filosofa, o teorica della politica come si definiva, non digeriva gli ebrei perché sradicati e, contemporaneamente, condannava il nazionalismo ebraico. Viveva la schizofrenia tipica degli antisemiti: odiano gli ebrei perché sono cosmopoliti e identitari, marxisti e capitalisti, ricchi e straccioni. Hannah Arendt era un pessima giornalista e la sua teoria politica era ben poco originale, un federalismo socialisteggiante. Aveva una scarsa comprensione dell’ebraismo e fece di Eichmann la vittima della “vendetta” israeliana.
Viene da chiedersi come mai l’UCEI dedichi così tanto spazio alla teorica della male banale e burocratico. Conformismo? Ai nuovi liebhaber der Menschheit, “amanti dell’umanità”, potrà piacere, ma non può essere un’icona dell’ebraismo. Almeno non una personalità di cui andar fieri.