Nel 1994 il Comitato norvegese per il Nobel, assegnò il prestigioso premio per la Pace a Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat per “i loro sforzi intesi a creare la pace nel Medio Oriente”. Il gusto aristofanesco di questa assegnazione (in linea con numerose altre) è particolarmente evidente, ma non ai più.
Rahman Abdul Rauf Arafat iniziò precocemente la sua attività gandhiana lanciando pietre all’età di sette anni durante la rivolta del 1936 in Palestina provocata dal Mufti filo nazista di Gerusalemme, Amin al Husseini. Dal 1942 in poi avrebbe passato la sua gioventù cairota frequentando nella capitale egiziana circoli filo nazisti. Lì avrebbe conosciuto Abdel Kader el-Husseini, parente del Mufti e capo di bande armate antisioniste, in quel momento in Egitto alla ricerca di volontari.
Tempi pionieristici, quando i giovani palestinesi imparavano a confezionare le bombe nella cucina di Abdel. “Era il mio capo”, dirà di lui Arafat, ricordando con nostalgia gli esordi che lo avrebbero portato al Nobel. “Avevo diciassette anni ed ero uno degli ufficiali più giovani”, dimenticando di sottolineare che alla sua istruzione militare provvedeva anche un ufficiale nazista il quale accompagnava all’epoca il Mufti in Egitto.
Per due anni Arafat organizzerà i rifornimenti armati a vantaggio delle organizzazioni segrete di Amin al-Husseini contro Israele. Dopo essere entrato nella fraternità dei Fratelli Musulmani, incoraggiato dall’onnipresente Mufti, diventerà presidente dell’Associazione degli Studenti Palestinesi. Con il suo “nom de guerre”, Abu Jihad, fonderà poi Fatah. Fu lo stesso Hajj Amin el-Husseini, a conferire ad Arafat lo statuto di leader della nazione Palestinese dopo di lui. Deve essere stato un momento commovente quando l’ex Mufti di Gerusalemme-il quale entrò in attrito con Heinrich Himmler nel 1943 a causa di un disaccordo relativo alla sorte di 5,000 bambini ebrei, che Himmler, per motivi di scambio con 20,000 prigionieri tedeschi, voleva fare emigrare consentendo la loro sopravvivenza, mentre il Mufti desiderava non sopravvivessero, ottenendo infatti la soddisfazione di vederli spediti nelle camere a gas-passò la consegna ad Arafat.
Nel 1967,alla fine della Guerra dei Sei giorni, Arafat diventerà presidente dell’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina fondata nel 1964. Fatah, all’epoca la forza dominante all’interno dell’organizzazione, ne avrebbe estremizzato l’impianto. Il bambino che lanciava pietre durante la rivolta del ‘36 sarebbe presto diventato, in virtù di una straordinaria opera di marketing arabo-sovietico, uno dei simboli della lotta “antimperialista” di cui, Israele avrebbe cominciato a rappresentare insieme agli Stati Uniti, l’esempio più dirompente.
Nel 1974, davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, il “leader maximo” in uniforme di ordinanza verde oliva (una mascheratura cheguevarista estremamente seducente per la platea della sinistra terzomondista) si sarebbe presentato come alfiere della pace e resistente vessato dall'”entità sionista”. Dopo avere criminalizzato Israele in un memorabile discorso tenendo in bella vista la fondina vuota della pistola (si era presentato armato all’ONU, ma Kurt Waldheim gli prese amorevolmente in custodia l’arma) avrebbe porto ai presenti un ramo di ulivo che non era mai esistito. Già ne 1980 avrebbe dichiarato al giornale venezuelano El Mundo, “Per noi la pace significa la distruzione di Israele”. Nel 1993, a un anno dall’assegnazione del Nobel e dopo gli Accordi di Oslo, avrebbe aggiunto, “Noi rispettiamo gli accordi allo stesso modo in cui il Profeta Maometto e Saladino rispettavano gli accordi che firmavano”.
La Seconda Intifada (2000-2005) organizzata da Arafat e che costò a Israele 1022 morti fu il suggello della carriera del lord of terror egiziano, premiato a Oslo nel 1994 per la sua operosa sollecitudine nell’affrettare lo Shalom.