Chi usa abitualmente WhatsApp sa che da qualche tempo i messaggi sono criptati end-to-end, che cioè nessuno può leggerli all’infuori del destinatario. A noi comuni mortali questa innovazione non ha , di regola, cambiato la vita, e ci ha lasciati abbastanza indifferenti. Ma c’è una categoria di persone che ne ha tratto un beneficio immenso, e si tratta di quanti hanno qualcosa da nascondere, che siano mariti o mogli infedeli, spacciatori di eroina, contrabbandieri di armi o terroristi.
E’ di questi ultimi che ci occupiamo oggi. Da tre anni WhatsApp appartiene a Facebook ed ha oltre un miliardo di utenti in 180 paesi, dunque è ovvio che sia uno strumento prezioso a disposizione di ISIS, Hezbollah, Hamas, AlQaeda, con la quasi certezza di impunità. Via WhatsApp essi dialogano fra loro e con i loro seguaci, danno istruzioni, invitano al “martirio”, insegnano a fabbricare ordigni, fanno proselitismo. L’utilizzo di questa piattaforma è pertanto quanto mai variegato: per le comunicazioni fra le cellule ed i leader; per coordinare reti di supporto; per discutere di come mettere in contatto fra loro jihadisti pronti ad entrare in azione; per inviare istruzioni operative; per reclutare nuovi adepti; per diffondere l’ideologia estremista; per inviare informazioni e notizie di attacchi portati a termine; per vendere materiali di propaganda con il loro logo; per raccogliere fondi.
E’ vero che le regole stabilite da WhatsApp vietano l’uso di questa piattaforma per “comunicazioni diffamatorie, minacciose, di intimidazione, di odio, offensive sotto il profilo razziale od etnico, o che incoraggino ed istighino a comportamenti illegali od inappropriati, ivi inclusa la promozione di crimini violenti”. Ma purtroppo le regole sono fatte anche per essere violate.
Facebook ha assicurato, nello scorso mese di giugno, che avrebbe messo in atto contromisure allo scopo di impedire un abuso di WhatsApp, ma come succede spesso tra il dire ed il fare si intromettono molti fattori diciamo così “creativi”, come ad esempio l’uso di numeri di telefono virtuali generati in internet che consentano di aggirare i controlli di WhatsApp.
Malgrado le contromisure, troppe volte inefficaci, i terroristi che hanno agito negli ultimi mesi hanno usato WhatsApp: lo ha fatto il giamaicano Abdullah al-Faisal, arrestato in agosto, per reclutare e per restare in contatto con i suoi adepti, tra i quali si dice fossero quel Richard Reid che aveva nascosto l’esplosivo nelle scarpe, Zacarias Moussaoui implicato negli attentati dell’11 settembre, il londinese Sidique Khan e quello di Natale Umar Farouq Abdulmutullab; l’ha usato Khalid Masood, autore dell’attentato all’esterno del Parlamento di Londra lo scorso 22 marzo; se ne è servita Sadia Malik con suo marito Sajid Idris, per distribuire materiale idoneo ad istruire terroristi; lo ha usato Abdelhamid Abaaoud, uno dei protagonisti degli attentati parigini del novembre 2015, per restare in comunicazione con i suoi colleghi, e l’ha usato Najim Laachroui, uno dei kamikaze di Bruxelles nel marzo 2016. E con loro molti altri.
Nell’aprile del 2015 la polizia italiana ha sentito un marocchino che viveva a Milano che dalla sua automobile ascoltava un messaggio registrato su WhatsApp proveniente dalla Siria, nel quale lo si sollecitava a farsi detonare in mezzo alla folla mediante una cintura esplosiva. In Israele, il 19 marzo 2017, la polizia ha arrestato 18 membri di un gruppo WhatsApp chiamato “Il sentiero verso il paradiso”, che pianificavano ed eseguivano attentati di cosiddetti “lupi solitari”. E l’elenco dei paesi in cui jihadisti o simpatizzanti si scambiano informazioni, fanno circolare messaggi di incitamento, diramano istruzioni e coordinano attentati potrebbe continuare. Uno strumento comodo, gratuito, universale in questo modo ha assunto anche un aspetto diabolicamente pericoloso.