Riceviamo da Daniela Santus, professore presso il Dipartimento di Lingue Straniere all’Università di Torino, e volentieri pubblichiamo
Mentre mi accingo a scrivere queste riflessioni, nella mia Università sono appena terminate le conferenze con Ilan Pappé, Jamil Khader e gli altri. Un evento di due giorni che ha messo, ancora una volta, Israele sul banco degli imputati. A Torino ad essere attaccati non sono mai Paesi come la Turchia, la Corea del Nord, l’Iran, il Pakistan, la Libia, l’Angola, l’Arabia Saudita, la Cina: sempre e soltanto Israele, con un ritmo incessante, tanto che la prossima iniziativa ufficiale – sulle violazioni dei diritti dei prigionieri palestinesi – si svolgerà il 5 aprile, ma nel frattempo non mancheranno proiezioni di film istruttivi, presidi per la libertà di Ahed Tamimi o l’Israeli Apartheid Week. E se le conferenze dell’1 e 2 marzo valevano 3 crediti formativi agli studenti di Culture, Politica e Società, quella del 5 aprile varrà 3 crediti a quelli di Giurisprudenza.
Gli organizzatori di questi eventi – accreditati dall’Ateneo, ma estranei alla docenza universitaria – si dichiarano orgogliosamente antifascisti, come se l’andare contro Israele e il suo popolo fosse sinonimo di antifascismo. Eppure la prima opposizione al sionismo fu messa in campo proprio da una tra le più importanti voci della propaganda nazista in lingua araba: Haj Amin e-Husseini. E la stessa Italia fascista si fece artefice, tramite i programmi radiofonici in lingua araba, di veicolare propaganda antisemita tra l’ottobre del 1939 e il marzo del 1945. Viviamo purtroppo periodi di grande confusione: c’è chi le chiama fake news e le ha scoperte solo adesso sulla sua pelle, ma chi si occupa d’Israele sa che da sempre la propaganda ha sparso veleno sugli ebrei prima e sugli israeliani poi.
Tuttavia chi non “vive” nell’Ateneo torinese non può immaginare quanto sia difficile opporsi a tutto ciò: se un docente provasse a invitare un relatore israeliano riuscirebbe forse a farlo parlare con la protezione della Polizia, ma difficilmente avrebbe pubblico perché il clima di violenza intorno a quell’evento sarebbe talmente alto da scoraggiare chiunque. E quel docente si ritroverebbe i giovani del collettivi e dei centri sociali in aula a tutte le sue future lezioni, come monito e minaccia a non riprovarci mai più. Le sue foto verrebbero appese alle pareti dell’ateneo, di fronte al suo studio si ritroverebbe scritto “Free Palestine” o Maghen David uncinati, ci sarebbero banchetti di raccolte firme per il suo allontanamento dalla docenza e la distribuzione agli studenti di dossier su tutti i suoi misfatti.
Il clima è pesante da sempre, ma oggi anche di più. L’Università sta perdendo la sua valenza di luogo di formazione e crescita costruttiva. E’ per questo che giorni fa ho chiesto al Rettore un incontro. La proposta che gli avevo anticipato era semplice: fermare una volta per tutte la propaganda e provare alavorare alla costruzione di una mentalità nuova che ci possa portare, se non a un pari numero di iniziative con studiosi israeliani, almeno a eventi condivisi. In fondo abbiamo la fortuna di non vivere in guerra, possiamo permetterci il lusso di pacati confronti e momenti di studio, di sederci intorno a un tavolo e di fornire ai nostri studenti un’ informazione aperta, libera e di livello.
L’incontro ancora non c’è stato, ma il primo punto – bloccare la propaganda – non dev’essere stato preso in considerazione. Infatti gli eventi dell’1 e del 2 marzo si sono svolti regolarmente e non dubito che si svolgerà anche quello di aprile. Ma cos’hanno imparato i circa 400 studenti portati in aula dai loro docenti e quanti si sono sintonizzati in diretta streaming? Un esempio tra i tanti: si è parlato di “decolonizzazione della Palestina” in altre parole si tratta di auspicare lo smantellamento dello Stato d’Israele lasciando intendere che nel 1948 già esisteva una Stato palestinese e che questo sia stato usurpato dagli ebrei. Sono certa che ben conosciate la portata di questa narrazione su menti di persone che nulla sanno dell’argomento. Pensiamo agli effetti di un bombardamento di questo genere protratto per due giorni. I primi due giorni di un ciclo di eventi. E credetemi, non importa il fatto che i relatori siano docenti universitari, seppur in diversi casi accusati da altri docenti di inaccuratezza scientifica: il problema é l’unidirezionalità dell’informazione. L’impossibilità di ascoltare una voce differente. A Ilan Pappé sarebbe stato doveroso affiancare Benny Morris: soltanto così l’informazione sarebbe stata a 360°.
Come stupirsi, poi, se gli studenti persino agli esami si dicano convinti che l’islam sia la prima religione monoteistica e che sia nata in Palestina prima dell’arrivo degli ebrei? O che ritengano che la Striscia di Gaza sia ancora territorio occupato da Israele?
L’Ateneo, permettendo e appoggiando la realizzazione dell’evento unilaterale con Pappé, Khader, Salih e gli altri, come già aveva permesso gli incontri con Salim Vally o Amira Hass e promuovendo quello futuro con Lana Ramadan ha in qualche modo scelto la “sua” verità. E anche se così non fosse nelle sensibilità individuali e critiche dei professori, di fatto è così agli occhi dei ragazzi, che all’Ateneo si rivolgono per ottenere conoscenza. Ed è la stessa verità che è stata ospitata, sempre nelle aule del Campus Einaudi, in occasione del seminario “Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina” il 18 gennaio o in occasione del “Giorno della Memoria Antifascista e Antisionista” il 24 gennaio. Eventi in cui gli studenti hanno scoperto la collusione tra ebrei e nazisti durante la Shoah: una bestemmia talmente enorme che fa rabbrividire. Una bestemmia che ci riporterà a tempi bui dei quali credevamo di provare vergogna.
Tuttavia il Magnifico Rettore ha affermato che è impossibile impedire i convegni di determinati Dipartimenti in nome dell’autonomia della didattica, come anche le attività autogestite. Scusate, ma io tremo al pensiero di cosa potrebbe accadere quando un gruppo neofascista autogestisse un evento dal più esplicito titolo di “morte agli ebrei” o ai neri o agli omosessuali. Si vedrà garantito il diritto di parola in nome dell’autogestione dell’evento? Il paragone è estremo, ma la deriva è estremamente pericolosa.
Così ieri, giunta alla consapevolezza del fatto che non ci fosse più speranza per il mio Ateneo e che anche la mia proposta di un convegno a più voci non sarebbe servita a nulla, ho scritto una nuova lettera indirizzata al Rettore, ai Vicerettori, alla Direttrice del Dipartimento presso cui la quasi totalità degli eventi ha luogo e al mio Direttore. A volte mi chiedo a cosa possa mai servire il mio fiume di parole che si disperde nel nulla della mia solitudine accademica, ma l’ho scritta ugualmente forse soltanto perché, come aveva detto Emile Zola, “il mio dovere è parlare, non voglio essere complice”.
Ho vergato alcune righe con il mio j’accuse … e ho chiuso metaforicamente la porta alla mia evanescente illusione di dialogo aggiungendo un’ultima riflessione: “cosa accadrebbe nel mondo se Netanyahu si presentasse alle telecamere con una bimba di sei anni in divisa militare a dire che, se morirà combattendo, sarà glorificata come martire? Cosa accadrebbe se in Israele le donne venissero arrestate perché non portano un determinato copricapo? Cosa accadrebbe se in Israele gli omosessuali venissero impiccati, le ragazze vittime di violenza frustate e le adultere lapidate? Cosa accadrebbe se in Israele i partiti arabi venissero cacciati dal Parlamento? Cosa accadrebbe se gli atleti israeliani alle Olimpiadi rifiutassero di gareggiare con gli atleti arabi? O, più semplicemente, cosa accadrebbe se gruppi filoisraeliani addobbassero le pareti dell’Università con bandiere con la stella di David e puntualmente realizzassero convegni al solo scopo di screditare i palestinesi?”
Invece, per la prima volta, qualcosa è accaduto: il mio Direttore mi ha chiesto di non demordere, di presentarmi a quell’incontro col Rettore e di provarci lo stesso, di continuare a credere di poter cambiare le cose attraverso lo strumento del dialogo. Forse a voi sembrerà del tutto normale, invece così non è: occorre coraggio per scrivere anche solo quelle parole. Poche righe che mi hanno permesso di capire che non tutto è perduto: non siamo tutti pronti a voltare lo sguardo, c’è ancora chi crede che un’altra strada sia possibile, c’è ancora chi crede che un antifascista non sia colui che intimidisce gli altri o colpisce i poliziotti con bombe carta imbottite di chiodi.