Il piano di pace presentato da Donald Trump alla Casa Bianca martedì scorso alla presenza di Benjamin Netanyahu, contiene due punti fermi ed essenziali che ne fanno un unicum e rompono drasticamente con tutti i fallimentari negoziati in corso dal 1993 ad oggi.
Il primo è che Israele ha pieno diritto territoriale sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania (Giudea e Samaria), il secondo è che nessuno Stato palestinese verrà mai in essere senza che riconosca la legittimità di Israele e abiuri definitivamente il terrorismo.
Tutto il resto è contorno. I dati principali, netti e chiari, sono questi due.
C’è tuttavia un netto divario tra questi due dati rispetto alla concretezza. Il primo è ancorato in modo fondamentale alla realtà in quanto Israele ha pienamente diritto a rivendicare gli insediamenti sulla base di ciò che stabiliva il Mandato Britannico per la Palestina del 1922. Non c’è alcuna illegalità nella presenza di residenti ebraici in una area dove gli ebrei sono sempre stati insediati per secoli anche se con frequenza alternata, fino a quando, nel 1948 vennero espulsi dai giordani che, nel 1951, si annessero del tutto illegalmente i territori.
Dopo quasi un secolo, un presidente americano, Donald Trump, da seguito a ciò che stabilirono gli inglesi in merito alla Cisgiordania relativamente agli ebrei.
Il secondo dato è invece legato a una prospettiva sostanzialmente chimerica, che l’Autorità Palestinese e Hamas riconoscano la realtà permanente di Israele.
Chimerica perché né Hamas né l’Autorità Palestinese faranno ciò che gli viene chiesto. Tuttavia, c’è qui una differenza sostanziale rispetto al passato.
Il piano di pace disegnato dall’amministrazione Trump mette con le spalle al muro le due organizzazioni, non concede loro alcun margine. Se non accetteranno i presupposti stabiliti dal piano non ci sarà alcuno Stato palestinese. Inutile negoziare, perdere del tempo, se prima non verranno accolti.
In questo senso, mentre Israele può procedere in tempi brevi all’incasso di ciò che il piano prevede, l’annessione degli insediamenti in Cisgiordania e la salvaguardia della propria sicurezza, le organizzazioni palestinesi sono rinviate ad una assunzione di responsabilità piena e solo da questa dipende l’ottenimento di quello che realisticamente è possibile avere oggi.
Non più ciò che venne proposto nel 1937 dalla Commissione Peel, l’80% dei territori, alla quale gli arabi risposero di no. Non più quello che aveva prospettato la Risoluzione 181 del 1947, che decurtava ulteriormente terra agli ebrei per concedere agli arabi uno Stato che comprendesse sia la Cisgiordania che Gaza e alla quale gli arabi risposero di no. Non più ciò che gli concedeva Ehud Barak a Camp David nel 2000, tra il 94 e il 96% della Cisgiordania più il 100% di Gaza e Gerusalemme capitale alla quale Yasser Arafat rispose di no. Offerta che sarebbe stata ulteriormente implementata da Ehud Olmert nel 2008 e che Abu Mazen rifiutò.
Finora i rifiuti da parte araba-palestinese a ogni proposta avanzata da Israele hanno condotto a un permanente stallo perché si basavano, nel passato più remoto sull’idea che Israele sarebbe stato distrutto e più recentemente, sulla convinzione che attraverso il terrorismo sarebbe stato costretto a piegarsi, insieme alla pura convenienza nel continuare a perpetrare il conflitto lucrando sugli enormi vantaggi economici e politici che ha procurato nei decenni alle cleptocrazie di Ramallah e Gaza.
C’era anche un altro aspetto, che alimentava i rifiuti, l’appoggio dei paesi arabi, i quali, progressivamente, hanno sempre più perso interesse a sostenere le ragioni di un conflitto senza sbocco.
Il piano di pace proposto da Donald Trump tiene conto di tutto ciò, lo ha metabolizzato e certifica in modo perentorio che non c’è altra possibilità di pace se non quella che si basa sulla presa d’atto che non ne verranno di più favorevoli di questa, sicuramente non nel breve termine.