Martedì 18 agosto è apparso sulle pagine del l’Informale un articolo a firma di Daniel Pipes, Sentirsi ottimista nei confronti di Israele e degli Emirati, relativo all’accordo tra Israele e Emirati Arabi Uniti con il patrocinio dell’Amministrazione Trump.
A differenza di altre analisi di Pipes su Israele e il Medio Oriente, questa appare debole nel suo entusiasmo e nel suo ottimismo. Vero è che siamo ancora in una fase preliminare, dove solo alcuni principi generali sono concreti e tutto rimane ancora da costruire tra le delegazioni diplomatiche dei due paesi. Ma alcuni punti si possono già sottolineare prendendo spunto dalla parole di Pipes.
In apertura del suo scritto lo studioso americano afferma: “La dichiarazione si riduce all’impegno di Israele di “sospendere la dichiarazione di sovranità su [parti della Cisgiordania] e concentrare i suoi sforzi sull’espansione dei legami con altri Paesi del mondo arabo e musulmano”. In cambio, gli Emirati Arabi Uniti “hanno concordato la piena normalizzazione delle relazioni” con Israele”.
Sospendere, da parte di Israele, la dichiarazione di sovranità in parti della Cisgiordania, non pare francamente una cosa da poco o come dice Pipes “si riduce all’impegno di…”. Si tratta, a tutti gli effetti, di riconsiderare una posizione di politica interna che può e deve essere presa (o non presa), unicamente dal governo di Israele, dopo un’attenta analisi da parte di tutte le forze politiche israeliane e del suo apparato di sicurezza esercito compreso. Far si che un trattato internazionale sia subordinato alla “sospensione” (che potrebbe essere anche una vera e propria rinuncia) di una decisione, esclusivamente di politica interna crea un precedente pericoloso che in futuro poterebbe condizionare altre importanti decisioni di Israele. Come ad esempio quella su Gerusalemme. E a fronte di che cosa? La piena normalizzazione delle relazioni. Ma se due soggetti sono paritari perché uno dei due deve subire un’ingerenza interna da parte di un soggetto esterno? Se per assurdo fosse Israele a chiedere agli Emirati di riconsiderare una decisione legata al suo territorio per normalizzare le relazioni, che reazione ci sarebbe? Ci sono seri dubbi che si siederebbero attorno ad un tavolo solo per parlarne. La “pace” si contraccambia con la “pace” e non con la “pace” più qualcos’altro da parte di uno dei due soggetti.
Pipes scrive: “Innanzitutto, gli accordi con l’Egitto, con il Libano e con la Giordania hanno sostanzialmente ignorato i palestinesi, ma i leader degli EAU possono puntare a strappare un impegno a Gerusalemme di sospendere i suoi piani di annessione della Cisgiordania”. Di questa affermazione sfugge completamente il vantaggio di Israele che Pipes gli attribuisce. Se nei passati accordi con altri paesi arabi la questione palestinese non ha influenzato il corso delle trattative (vedi accordo con l’Egitto e con la Giordania), oggi per la prima volta gli emiratini hanno “strappato un impegno” a Israele che esula completamente dagli accordi stessi e si inserisce nelle trattative in corso tra Israele e ANP. Si lega, in altre parole, a un trattato bilaterale ad un altro tavolo di trattative con le relative conseguenze. Se questo è stato fin da subito il vero scopo di Benjamin Netanyahu, come sospetta Matt Mainen, la cosa è ancora più grave: avrebbe utilizzato un elemento di sicurezza nazionale (la strategica valle del Giordano) solo come merce di scambio a scopo politico.
Pipes prosegue nella sua analisi riferendosi alla minore opposizione dell’opinione pubblica araba all’accordo: “Inoltre, la vox populi conta poco negli Stati arabi del Golfo Persico come gli Emirati Arabi Uniti, dove la popolazione tende a rimettersi ai loro leader. Come mi ha detto un emiratino, proprio come i pazienti si rimettono al parere dei loro medici, così gli abitanti del Golfo Persico accolgono con favore le decisioni dei loro governanti”. Il principio contenuto in questa frase è in se ineccepibile, ma è fragile: cosa ne sarebbe dell’accordo se negli Emirati ci fosse un cambiamento di regime? Se un’altra famiglia regnante non d’accordo con l’apertura nei confronti di Israele prendesse il controllo del paese? La possibilità che si possa ripetere l’esperienza con l’Egitto di Morsi non può essere esclusa. E’ bene ricordare che se Al-Sissi non avesse rovesciato Morsi con un colpo di stato le cose per Israele sarebbero cambiate radicalmente. Morsi e gran parte degli egiziani (come tutta la fratellanza Musulmana) erano favorevoli al disconoscimento degli Accordi di Camp David. La stessa cosa vale per la Giordania di Abdallah. Ragione per cui la valle del Giordano per nessun motivo deve essere merce di scambio per promesse di aperture diplomatiche.
“Pertanto, i cittadini degli EAU probabilmente accetteranno il riconoscimento dello Stato ebraico in un modo che ad esempio i libanesi non farebbero. Se i precedenti governanti che hanno firmato accordi con Israele non sono riusciti a determinare un più ampio ripensamento, questo non ha importanza negli Emirati Arabi Uniti”. Questo assunto rimane solo una mera ipotesi tutta da dimostrare nei fatti. Tanto è vero che Pipes stesso in precedenza aveva scritto che la vox populi conta poco negli Emirati (come del testo in tutti i paesi arabi). Neanche una volta Pipes prende in considerazione la possibilità di un cambio di regime negli Emirati, e questo significherebbe che l’impegno concreto di Israele (la rinuncia di sovranità) verrebbe vanificato.
Infine: “In terzo luogo, una malsana combinazione di cessioni di terre israeliane e di sussidi statunitensi ha guidato la diplomazia degli accordi precedenti (non considerando l’accordo con il Libano, che non è stato attuato). In un modo o nell’altro, gli accordi equivalevano a grosse tangenti”. Siamo sicuri che non sia così anche oggi? Ovviamente gli Emirati, a differenza di Egitto e Giordania, non hanno bisogno dei soldi americani. Ma se le tangenti di oggi fossero pagabili sotto forma di forniture di armi strategiche come gli F35 o altre dotazioni altrettanto sofisticate? Il rinnovato e forte impegno anti iraniano e anti turco, una volta conclusa la minaccia, cosa lascerà dell’accordo?
“Al contrario, la dichiarazione congiunta di Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele ha una base legittima, senza alcun accenno di subornazione: non contempla alcun ritiro di forze israeliane da un territorio e i contribuenti americani non sborsano soldi. La dichiarazione ha una solida premessa: Gerusalemme rinuncia a un passo simbolico ampiamente condannato e controproducente in cambio dell’accettazione da parte di una potenza regionale emergente”.
Che l’estensione di sovranità sia solo un passo simbolico è difficile da credere che sia un analista preparato come Daniel Pipes ad affermarlo. Se lo fosse non si capisce perché tutto il mondo arabo, l’ONU la UE siano, accanitamente, contrari. E’ invece un passo concreto con il quale si dichiara, da parte di Israele, una volta per tutte la piena titolarità ad un territorio che il diritto internazionale gli ha assegnato con il Mandato di Palestina a partire dal 1920, e messo in discussione dopo l’invasione giordana. Inoltre, che sia “controproducente” è tutto da dimostrare soprattutto ora che anche la Turchia sta diventando un attore primario nell’area (ingerenza su Gerusalemme e finanziamento all’ANP e altri “favori” cose di cui si è trattato qui in un articolo dedicato al tema il 26 gennaio).
In conclusione, tutte le tesi proposte a favore di un accordo che porterà, e tutti ce lo auguriamo, grandi prospettive per Israele e gli Emirati, si scontrano con un fatto concreto: una rinuncia reale: la piena sovranità su parti di Giudea e Samaria (Cisgiordania), che molto probabilmente non troverà più il sostegno americano, a fronte di grandi e future prospettive. Una rinuncia di questo peso a fronte di un accordo che dovrebbe condurre a una cooperazione economica, di intelligence e forse militare. Siamo davvero alla viglia di una reale accettazione di Israele da parte araba? O passata la paura dell’Iran e della Turchia, anche questa diventerà un’altra “pace fredda” come è accaduto con Egitto e Giordania?
Questa è la vera scommessa: puntare sul cambiamento di paradigma arabo nei confronti di Israele – con la sua piena accettazione di legittimità esistenziale – oppure ritrovarsi nei prossimi anni a lottare diplomaticamente in tutte le sedi mondiali per conservare il libero accesso al Kotel per tutti gli ebrei.