Daniel Pipes intervistato da Madalina Sisu Vicari per Vocal Europe il 28 agosto 2017. Traduzione per L’Informale di Angelita La Spada
I. La politica estera di Trump
Vocal Europe: In che differiscono le amministrazioni Obama e Trump nelle loro politiche verso il Medio Oriente?
Daniel Pipes: La politica di Obama in Medio Oriente è facile da descrivere in quanto è stata abbastanza coerente negli otto lunghi anni ed è consistita nello scusarsi per i passati misfatti americani, nel “guidare da dietro le quinte”, nel parlare con i nemici e denigrare gli alleati.
Al contrario, sette mesi di amministrazione Trump lasciano un’immagine di confusione semi-completa. Forse il migliore esempio è offerto dagli elogi profusi ad aprile nei confronti del presidente egiziano al-Sisi per il “lavoro fantastico” da lui svolto, seguiti ad agosto da un taglio sostanziale degli aiuti americani – e di cui gli egiziani sono venuti a conoscenza leggendo un dispaccio dell’agenzia di stampa Reuters! Anche se la contraddizione può essere spiegata, questo conferma il caos.
Altri esempi di ambiguità: decidere se spostare a Gerusalemme l’ambasciata americana in Israele; se stracciare l’accordo con l’Iran; se stare dalla parte dei sauditi e contro il Qatar; se combattere contro Hezbollah o fornirgli armi gratis. Ovviamente, tutto questo non incoraggia delle previsioni rosee.
VE: A ottobre, Trump dovrà prendere una delle sue decisioni più importanti. Dovrà infatti stabilire se continuare a certificare la conformità iraniana all’accordo sul programma nucleare iraniano, conosciuto come Piano d’azione congiunto globale (Pacg), raggiunto nel 2015. Trump è contrario all’accordo, ma il segretario di Stato Rex Tillerson ritiene che sia bene che gli Stati Uniti non escano dall’accordo e che dovrebbero considerare Teheran un partner affidabile e come un “buon vicino”. Visto il sostegno offerto dall’Iran ai combattenti stranieri in Siria e in Iraq, l’appoggio dato ai suoi emissari, incluse le forniture di armi, quale opzione indurrebbe l’Iran ad agire come un “buon vicino”: la ricertificazione di conformità, la non conformità di Teheran o qualcos’altro?
DP: Preferirei che il Pacg venisse stracciato. (Per inciso, che cosa è esattamente un “piano d’azione”?) Come ha detto Trump, è “il peggior accordo mai negoziato”. O come dico io, è il peggior accordo di politica estera della storia americana. Ma come per l’Obamacare, è più facile recriminare sui due principali successi del precedente presidente che vanificarli.
VE: Pensa che Washington adotterà misure più severe contro l’Iran?
DP: Essendo le sue opinioni e azioni prive di una base filosofica, Trump reagisce a stimoli immediati, il che lo rende notoriamente imprevedibile. Se gli iraniani lo rabboniranno, no non lo farà. Ma se lo faranno irritare, sì, le adotterà.
Peraltro, trovo curioso che diversi attori mediorientali oltre a Teheran (come l’Isis e l’Autorità palestinese) ignorino questa peculiarità di Trump e lo sfidino apertamente, a proprio rischio. Al contrario, il saudita Mohammad bin Salman e l’israeliano Benyamin Netanyahu sono riusciti a capirlo.
VE: Come valuta la linea politica americana adottata per affrontare la crisi del Qatar?
DP: Il presidente ha divagato (parlando di uno strenuo sostegno a Riad) mentre l’establishment di politica estera ha proposto una mediazione di basso profilo. Sembra che sia prevalsa la posizione dell’establishment.
VE: Cosa ne pensa dell’attuale visita in Medio Oriente di una delegazione della Casa Bianca guidata dal consigliere presidenziale Jared Kushner?
DP: È un atto diplomatico di rito che verrà presto dimenticato.
VE: C’è una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese?
DP: Sì, ma solo quando i palestinesi riconosceranno che lo Stato ebraico è permanente e smetteranno di cercare di danneggiarlo. Quando ciò accadrà, entrambe le parti avranno da guadagnarci. Gli israeliani non verranno uccisi nelle pizzerie e i palestinesi potranno iniziare a costruire il loro stato, la loro economia, la società e la cultura.
II. La politica estera di Erdogan
VE: Israele e la Turchia hanno ripreso i rapporti diplomatici alla fine del 2016, dopo sei anni di rottura. Quali sono le sfide alla piena normalizzazione delle loro relazioni?
DP: La piena normalizzazione sarà impossibile fino a quando il governo turco userà Israele come strumento per incitare l’antisemitismo islamista.
VE: Il Governo regionale del Kurdistan (Krg) terrà un referendum sull’indipendenza il 25 settembre 2017. Perché l’amministrazione Trump chiede al Krg di rinviare il voto almeno fino a dopo le elezioni parlamentari irachene previste per aprile 2018?
DP: Il Dipartimento di Stato ha espresso a giugno la sua preoccupazione che il referendum distrarrà da “priorità più urgenti” come la sconfitta dell’Isis. A mio avviso, questa non è una buona ragione (non voglio nemmeno che l’Isis scompaia, perché, per quanto orribile sia, contiene l’espansione iraniana, che è ancora più minacciosa).
Pur essendo io favorevole all’indipendenza curda e a un unico, grande Stato curdo, considero il referendum come un pericolo per tutti gli interessati, che rischia di sconvolgere ulteriormente una regione altamente instabile, forse provocando un’invasione turca del Krg, iraniana o da parte del governo centrale iracheno, che potrebbe portare a un confronto tra forze americane e russe.
VE: Ankara vuole che il Krg annulli il referendum. Se il Governo regionale del Kurdistan rifiutasse di farlo, in che modo questa consultazione popolare influirebbe sulle relazioni tra la Turchia e il Krg?
DP: Potrebbe indurre la Repubblica di Turchia a rallentare i rapporti economici e perfino a indurre a un’invasione turca.
VE: In che modo il referendum influirà sulle relazioni della Turchia con i curdi della Turchia e della Siria?
DP: Mi aspetto che Ankara sottoporrà i cittadini curdi a una repressione ancora più dura e diventerà aggressiva nei confronti dei curdi della Siria.
VE: Durante una rara visita in Turchia, membro della NATO, da parte del capo di Stato maggiore dell’esercito iraniano, i leader militari turchi e iraniani hanno discusso di antiterrorismo e cooperazione in Siria. Ciò sta a indicare un ravvicinamento strategico fra i due governi?
DP: Ne dubito. Come ho scritto in un excursus storico sui rapporti fra questi due paesi, “l’accordo di Idlib sembra fragile e transitorio. Teheran e Ankara probabilmente si metteranno probabilmente l’una contro l’altra e con rinnovato vigore daranno seguito alla loro rivalità perpetua”.
VE: Il fatto che i loro rapporti siano migliorati provocherà un deterioramento dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Turchia?
DP: Certamente. Un membro della NATO che acquista un sistema di difesa anti-missile dalla Russia, conduce esercitazioni con la Cina e si coordina con l’Iran? Per gli americani, la Turchia somiglia più a un avversario piuttosto che a un alleato.
VE: Cosa ne pensa delle richieste turche agli Stati Uniti per l’estradizione di Fethullah Gülen per il presunto ruolo da lui avuto nel fallito colpo di Stato del luglio 2016?
DP: L’opposizione turca lo definisce il golpe “controllato”, nel senso che “è stato previsto e non evitato” da Erdogan e dall’Akp, il partito di governo, “che ne hanno beneficiato”. Concordo con questa descrizione, in parte perché il governo turco si è opposto sistematicamente a un’indagine indipendente sul tentato colpo di Stato.
Quanto a Gülen, fonti governative americane hanno precisato che Ankara non ha fornito prove della sua complicità e men che meno del fatto che lui sia stato il “regista” del tentato golpe. Di conseguenza, minimizzo questa accusa considerandola come la solita montatura e frode di Erdogan.