Islam e Islamismo

Trono di sangue: L’interminabile faida intraislamica

L’attacco rivendicato dall’ISIS al parlamento iraniano si iscrive nel millenario conflitto sciita-sunnita e mette in luce, se ce ne fosse ancora bisogno, la natura profondamente conflittuale e violenta dell’Islam nelle sue declinazioni opposte e nella perenne lotta per chi, al suo interno, debba ottenere il basto del comando.

Nel marzo del 2015, quando parlò al Congresso degli Stati Uniti per cercare di contrastare la decisione di Barack Obama di siglare con l’Iran un accordo nucleare, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu disse:

“L’Iran e l’ISIS sono in competizione per la corona dell’Islam militante. Uno si definisce la Repubblica Islamica, l’altro si definisce lo Stato Islamico. Entrambi vogliono imporre un impero islamico prima in Medioriente e poi sul resto del mondo. Sono in disaccordo tra di loro su chi debba essere a capo di questo impero. Si tratta di un gioco mortale per ottenere il trono”.

L’ISIS è infatti solo una ulteriore rappresentazione di questo conflitto ininterrotto, dichiarandosi esplicitamente come incarnazione del califfato e promotore di un progetto globalista di conquista che, con la cattura di Roma, raggiungerebbe simbolicamente il proprio approdo. L’Iran, dal 1979 a oggi, è stato uno dei maggiori agenti di esportazione del terrorismo islamico sciita, inaugurato a Beirut nel 1983 dove colpì prima l’ambasciata americana e poi la caserma dei marines, provocando la morte di 241 soldati americani. Atri attentati di matrice sciita sarebbero poi avvenuti in Kuwait, a Buenos Aires e in Arabia Saudita. Il progetto khomeinista di esportazione terrorista della rivoluzione islamica si è andato coniugando con quello di destabilizzazione e volontà di dominio in Medioriente, sviluppatosi progressivamente su molteplici teatri di guerra, in Siria, Libano, Iraq, Yemen.

In Siria, l’Iran combatte l’ISIS e altre formazioni jihadiste sunnite sponsorizzate dall’Arabia Saudita che a sua volta si oppone alla setta islamica di Al Baghdadi pur condividendone l’impianto dottrinario wahabita di cui l’ISIS offre una interpretazione ancora più oltranzista rispetto a quella saudita. La riqualificazione dell’Iran come sponsor numero uno del terrorismo islamico da parte dell’Amministrazione Trump, dopo l’appeasement con Teheran voluto da Barack Obama, ha ulteriormente evidenziato il contrasto già esistente, rinfocolato dal contratto multimiliardario per le forniture militari che gli Stati Uniti hanno appena siglato con Riad.

Questo scenario è anche quello in cui, dietro l’impulso americano per la lotta nei confronti del terrorismo islamico, si è costituito un fronte formato da stati arabi, tra i quali spiccano l’Arabia Saudita e l’Egitto. L’isolamento politico commerciale del Qatar da parte di Riad, dell’Egitto e degli emirati arabi ne è la diretta conseguenza. Il piccolo e ricchissimo emirato ha infatti non solo finanziato formazioni estremiste come Hamas e i Fratelli Musulmani, di cui il gruppo jihadista palestinese è una filiazione, ma anche ospitato suoi esponenti di rilievo. Certo fa sorridere il fatto che l’Arabia Saudita, la quale più di ogni altro stato arabo ha investito enormi risorse economiche per diffondere il wahabismo, matrice culturale dello jihadismo contemporaneo, si proponga ora come antagonista di chi, come l’ISIS, è in buona parte fiorito su questo terreno, ma il problema per la Casa Reale saudita non è la coerenza, ma la volontà di non essere detronizzata.

Quello a cui stiamo assistendo su vari fronti, è dunque un mosaico mobile di scontri e contrapposizioni tutte interne allo battaglia di potere mai sopitosi in seno all’Islam e di cui gli esiti futuri sono difficilmente prevedibili.

Clicca per commentare

Devi accedere per inserire un commento. Login

Rispondi

Torna Su