Siamo entrati in una epoca estrema, ovvero un’epoca di contrasti, polarizzazioni forti, radicalismi ribollenti. E’ lo Spirito del Tempo che non sembra seguire alcuna astuzia della Ragione, poiché, con buona pace di Hegel, non è la ragione a guidare la storia.
L’elezione di Donald Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, scoperchia una pentola già da tempo in ebollizione e manifesta chiaramente l’inverno del nostro scontento. Donald Trump è lo specchio sul quale si riflette l’umore nero di chi, stanco del vecchio ordine, vuole parole nuove, che altro non sono se non il vecchio che ritorna nel sembiante del nuovo, una scopa robusta che spazzi via i cocci di molte depositate frustrazioni.
Nel suo discorso inaugurale, spigoloso e pugnace, Trump si è presentato come il vendicatore wasp dei sogni andati a male dell’America, il redentore della working class impoverita e del popolo tradito dal sistema. I tasti da pigiare sono quelli primordiali, il riscatto, il patriottismo, la speranza. Si tratta di dare un colpo di reni per tornare in sella. Allo stesso tempo egli è il risultato di quella che è una perdita di certezza generalizzata sul futuro e la tenuta del nostro apparato di vita, non solo quello americano, che è stato, dal dopoguerra a oggi, il massimo simbolo della prosperità e della forza occidentali.
Chi vede in lui l’orco cattivo della fiaba, il potenziale dittatore, un riflusso del Maligno, al contempo sbaglia e ha ragione. Sbaglia perché Trump non è il male condensato (ci sono, per citare Paolo, dominazioni e potentati, ben più inquietanti, dall’Iran, alla Corea del Nord, dalla Russia alla Turchia, per non parlare del frammentato e disseminato ordine del integralismo musulmano), ma ha ragione nel proiettare su di lui queste figure archetipe. Sono fantasmi che emergono potenti dal sottosuolo. Vengono a galla in momenti di trasformazione, di crisi. Non siamo noi a manifestarli, sono loro che si manifestano attraverso di noi.
Siamo, infatti, dentro un sommovimento profondo che muove le budella, eccita i tribalismi, rinfocola i terrori di notti senza stelle. Un Occidente ormai stanco di se stesso, una Europa vecchia e incapace di rifondarsi, orde di stranieri affamati alle porte mentre i fasti tecnologici procedono sfarzosi regalandoci protesi sempre più sofisticate, balocchi utili e molti inutili, oppi nuovi al posto di quelli non più efficaci. Ed ecco emergere il desiderio del nocchiere, dell’uomo forte, di chi ci libererà dal disordine incombente salvandoci da un altro ordine quello del sacro militarizzato islamico.
Trump è dunque una evocazione e come tutte le evocazioni è il terminale di un disagio radicato. Per molti annuncia l’uscita dall’oscurità di un presente disagevole e pieno di incertezze, per altri rappresenta, al contrario, l’ingresso in una oscurità maggiore. In entrambi i casi egli è la figura simbolica più forte oggi sulla scena, la scena su cui è da tempo vuoto un trono, quello dell’imperatore.
L’imperatore non è un uomo. E’ il bisogno che gli uomini hanno di una guida. Ci accompagna dai primordi della storia e non se ne andrà mai. Quando manca, al suo posto si insediano poteri senza volto, agglomerati fantasmatici, conglomerati molto più inquietanti di una figura sola investita dal potere, perché inafferrabili, misteriosi, sinistramente occulti. E’ contro questi potentati che Trump si è presentato, in altre parole, si è presentato come un argine alla loro fame di dominio. Che egli stesso ne sia poi contaminato, non importa, importa che nell’immaginazione ne rappresenti l’antagonista, l’oppositore, l’esorcismo.
Trump è totemico. Per questo polarizza esaspera, divide. E polarizza, esaspera e divide perché intercetta potentemente il disagio che stiamo attraversando.