Ripubblichiamo per la sua estrema attualità un articolo di Davide Cavaliere pubblicato a maggio.
Ancora una volta riconosciamo il fascista dal grido: Viva la morte!
Gilles Deleuze
La pace arriverà quando gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi.
La storia recente mostra che ogni processo di pace messo in atto per far cessare il conflitto arabo-israeliano sia stato prima ostacolato e poi interrotto dai palestinesi. Non vi è mai stato, infatti, un rifiuto pregiudiziale di Israele a concedere agli arabi-palestinesi uno Stato indipendente. Col tempo è apparso evidente che gli arabi palestinesi non combattono una guerra per la terra, ma una guerra ideologica; che non si lottano per rinsaldare il possesso di poche alture o per consolidare qualche chilometro di confine, bensì per sterminare i sei milioni di ebrei che vivono nei confini dello Stato d’Israele.
La pulizia etnica degli ebrei è sempre stata l’obiettivo degli arabi palestinesi. Il vero scopo del nazionalismo arabo è fin dal principio quello di creare un Medio Oriente arabo-islamico senza nazionalità o religioni alternative. La fiaccola nel panarabismo è stata raccolta dai radicali islamici, che intendono cancellare Israele, definito spregiativamente, «entità sionista», per ristabilire la purezza della Umma, ossia la «comunità» transnazionale dei musulmani. L’ideologia islamista, che si vuole qui brevemente analizzare, costituisce il principale e forse unico impedimento a un Medio Oriente pacificato.
L’islamismo è, stando alla definizione elaborata da Eric Voegelin, una «gnosi moderna», un movimento di massa apocalittico-messianico teso al sovvertimento dello stato di cose presenti. L’ideologia islamista condivide con i totalitarismi secolari del XX secolo, nazismo e comunismo, messianismi intramondani, la volontà d’instaurare un regno definitivo sulla terra, in questo caso attraverso l’imposizione globale della Sharia, e di farlo mediante l’esercizio di una violenza catartica, il jihad, ossia la guerra santa contro gli infedeli. Gli islamisti desiderano purificare il mondo lavandolo col sangue umano.
Siccome lo jihadista lavora per far imporre il regno di Allah sulla terra, il suo maggior obbligo è quello di sottomettersi alla divinità, proprio come i nazisti si sottomettevano alla volontà del Führer e i comunisti a quella del Partito. Lo jihadista ha il dovere morale di uccidere quelli che lui considera i «nemici dell’Islam», anche attraverso il sacrificio di sé. Il martirio e il suicidio-omicido sono le espressioni privilegiate di questa sottomissione totale. Nel contesto islamico del Jihad, dunque, queste concezioni generano il desiderio e la pratica di versare sangue umano in nome di una missione «divina».
L’islamismo, soprattutto quello declinato nella forma del «palestinismo», è un culto della morte. Basta vedere i video e le immagini dei cortei di Al-Fatah, di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina: uomini che marciano armati, col volto celato da inquietanti passamontagna, talvolta avvolti nel sudario dei martiri o accompagnati da foto di leader defunti, mentre scandiscono minacce di morte e appelli dal tono apocalittico. Ricordano le SS ai raduni di Norimberga, con la loro terrorizzante celebrazione della forza e della guerra. I palestinesi, per di più, si sono anche distinti per l’esibizione macabra di bare e cadaveri, soprattutto di bambini.
Le opere del padrino dell’islamismo, Sayyid Qutb (1906-1966), illuminano perfettamente la pulsione distruttiva e autodistruttiva insita in questa visione del mondo, mostrando come l’obbligo jihadista non sia solo quello di togliere la vita agli altri, ma anche a sè stesso, con un atto che impone la morte tanto della vittima quanto del carnefice. Inoltre l’attentatore, annientando la sua persona, si sottrae alla cattura da parte del nemico e alla conseguente imputazione giudiziaria.
Nel suo attento studio degli scritti di Qutb, Terrore e liberalismo, Paul Berman delinea come Qutb abbia collegato verità e martirio e, così facendo, abbia messo in luce la sintesi islamista di totalitarismo e culto della morte. Berman scrive:
«Pure nel suo caso c’era il popolo di Dio. Erano i musulmani. Il popolo di Dio era stato attaccato insidiosamente dall’interno della sua stessa società, da forze corrotte e inquinate. Nella versione di Qutb, queste erano i falsi musulmani, gli ipocriti. I nemici interni erano sostenuti da nemici sinistri, addirittura cosmici, provenienti dall’esterno. Erano i crociati e gli Ebrei. Contro di loro si sarebbe scatenata una guerra terribile, condotta dalla avanguardia musulmana. Sarebbe stato il jihad. La vittoria, come sempre, era garantita. E il regno di Dio, che era esistito una volta in un passato lontano, sarebbe tornato. Sarebbe stato il regno della sharia. E il regno avrebbe creato una società perfetta, pulita da qualsiasi impurità e corruzione, come sempre nelle mitologie totalitarie».
I nemici sono «cosmici», in ballo vi è il regno di Dio o quello dei suoi nemici, una tale mentalità non può che produrre individui ossessionati dalla lotta fino al sacrificio supremo. Per gli islamo-palestinesi uccidere è una necessità. Affinché l’Islam possa sopravvivere è necessario massacrare gli avversari che sono, volendo utilizzare una frase di Oliver Cromwell, «il nemico provvidenziale la cui inimicizia discende in esso dalla mano di Dio». La lotta contro Israele fa parte di un ordine divino. Gli jihadisti vivono autenticamente solo quando uccidono. Nel suo libro, The Mind of Jihad, lo stratega di origine francese Laurent Murawiec spiega l’orrore di questo culto della morte, riassumendolo con una parafrasi cartesiana: «uccido, dunque sono». La ricerca di una pace con Israele o con qualunque altro «nemico dell’Islam» rappresenta un tradimento della volontà divina.
Per lo jihadista, come per i suoi fratelli nazisti e comunisti, lo scopo della vita non è viverla facendo tesoro dei momenti di bontà e bellezza che offre, e sicuramente non coincide con la ricerca di una felicità personale; lo scopo della vita, il suo télos, è perderla nel momento stesso in cui la si strappa via ai propri nemici. L’attentato suicida è il kairos, il «momento culminante» di un’esistenza vissuta all’ombra del Corano e della morte.
Questo è il motivo per cui i fondamenti morali della civiltà liberale e il suo sacro principio della «ricerca della felicità» – racchiuso nella Dichiarazione d’indipendenza americana – è un anatema per l’Islam, così come lo era per i nazisti e comunisti (così come lo è per sinistra radicale). La ricerca della felicità implica che l’individuo e la sua volontà sono importanti; inoltre, implica che il mondo e gli uomini che lo popolano possano essere accettati per quello che sono, con le loro imperfezioni e i loro limiti. Quest’ultima è una violazione mortale del codice totalitario, poiché contraddice la necessità di distruggere il mondo e rifarlo da zero. La felicità personale è un tradimento; la frustrazione un combustibile per la causa.
Questa mentalità psicotica spiega perché l’odio per gli ebrei è una componente così importante del Jihad, così come della maggior parte degli altri culti della morte. Due dei connotati ebraici più straordinari sono l’amore per la vita e la dura lotta per la sopravvivenza. Gli jihadisti, così come i nazisti e i comunisti, li considerano due gravi trasgressioni delle loro convinzioni. Per Qutb, una vera «caratteristica spregevole degli ebrei» – come identificata dal Corano – era il loro «vile desiderio di vivere, non importa a quale prezzo, indipendentemente dalla qualità, dall’onore e dalla dignità».
Ora dovrebbe essere chiaro perché nessuna pace duratura è possibile con i palestinesi. Come disse lo scrittore Maurice G. Dantec: «è certo è che i prossimi campi di sterminio opereranno in nome del jihad». Coloro che cercano la conciliazione con l’islamismo palestinese commettono il medesimo errore di Chamberlain: cercare la pace dove dimora la guerra.
A settantacinque anni dalla nascita dello Stato d’Israele, gli ebrei sono ancora il gruppo religioso più odiato al mondo. I radicali islamici vogliono distruggere Israele, spesso col tacito accordo dei cosiddetti «musulmani moderati». L’odio per gli ebrei viene insegnato nelle moschee dell’Islam; in Egitto e in altri paesi arabi il Mein Kampf è un bestseller; la falsificazione antisemita, I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, è promossa dalla stampa governativa in tutto il Medio Oriente arabo, dove abbondano le teorie del complotto ebraico, come si evince dai sermoni dei leader arabo-musulmani.
Nessuna pace sarà possibile coi palestinesi fino a quando nei loro occhi non si vedrà qualcosa di diverso dall’odio antisemita e dal desiderio di morte.