Pubblichiamo in esclusiva italiana l’intervento integrale di Tony Blair apparso il 21 agosto sul Tony Blair Institute for Global Change
L’abbandono dell’Afghanistan e del suo popolo è tragico, pericoloso, inutile, non è nel suo interesse e non è nel nostro. All’indomani della decisione di restituire l’Afghanistan allo stesso gruppo da cui è scaturita la carneficina dell’11 settembre, e in un modo che sembra quasi progettato per ostentare la nostra umiliazione, la domanda posta da alleati e nemici allo stesso modo è: l’Occidente ha perso la sua volontà strategica? Ovvero: è in grado di imparare dall’esperienza, pensare strategicamente, definire strategicamente i propri interessi e su questa base impegnarsi strategicamente? Il lungo termine è un concetto che siamo ancora in grado di afferrare? La natura della nostra politica è ora incompatibile con l’affermazione del nostro tradizionale ruolo di leadership globale? E ci interessa?
In qualità di leader della Gran Bretagna quando prendemmo la decisione di unirci agli Stati Uniti per rimuovere i talebani dal potere – e che ha visto le grandi speranze che nutrivamo su ciò che potevamo ottenere per le persone e per il mondo affossarsi sotto il peso dell’amara realtà – so meglio di chiunque altro quanto siano difficili le decisioni della leadership, quanto sia facile essere critici e quanto sia difficile essere costruttivi.
Quasi venti anni fa, in seguito al massacro di 3.000 persone sul suolo americano avvenuto l’11 settembre, il mondo era in subbuglio. Gli attacchi vennero organizzati fuori dall’Afghanistan da al-Qaeda, un gruppo terroristico islamista protetto e assistito dai talebani. Lo dimentichiamo ora, ma il mondo ruotava sul suo asse. Temevamo ulteriori attacchi, forse peggiori. Ai talebani venne dato un ultimatum: cedere la leadership di al-Qaeda o essere rimossi dal potere in modo che l’Afghanistan non potesse essere utilizzato per ulteriori attacchi. Rifiutarono. Sentivamo che non c’era alternativa più sicura per la nostra sicurezza che mantenere la parola data.
Offrimmo la prospettiva, sostenuti da un impegno sostanziale, di trasformare l’Afghanistan da uno stato terroristico fallito a una democrazia funzionante in via di guarigione. Potrebbe essere stata un’ambizione mal riposta, ma non era ignobile. Non c’è dubbio che negli anni che seguirono abbiamo commesso degli errori, alcuni gravi. Ma la reazione ai nostri errori è stata, purtroppo, di commettere ulteriori errori. Oggi siamo in uno stato d’animo che sembra considerare l’introduzione della democrazia come un’illusione utopica e qualsiasi tipo di intervento, come una follia.
Il mondo è ora incerto sulla posizione dell’Occidente perché è così ovvio che la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan in questo modo è stata guidata non dalla grande strategia ma dalla politica.
Non avevamo bisogno di farlo. Abbiamo scelto di farlo. Lo abbiamo fatto in obbedienza a uno slogan politico imbecille sulla cessazione delle “guerre senza fine”, come se il nostro impegno nel 2021 fosse lontanamente paragonabile al nostro impegno di venti o addirittura dieci anni fa, e in circostanze in cui il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento per diciotto mesi.
Lo abbiamo fatto nella consapevolezza che, sebbene peggio che imperfetti, e sebbene immensamente fragili, negli ultimi ventanni anni ci sono stati guadagni reali. E per chiunque lo contesti, si leggano i lamenti strazianti di ogni settore della società afgana su ciò che temono andrà perduto. Guadagni nel tenore di vita, nell’istruzione in particolare delle ragazze, guadagni in libertà. Non proprio quello che speravamo o volevamo. Ma non niente. Qualcosa che vale la pena di difendere, che vale la pena di proteggere.
Lo abbiamo fatto quando i sacrifici delle nostre truppe avevano reso quelle fragili conquiste un dovere da preservare.
Lo abbiamo fatto quando l’accordo del febbraio 2020, a sua volta pieno di concessioni ai talebani, con cui gli Stati Uniti accettavano di ritirarsi se i talebani avessero negoziato un governo di ampia base e protetto i civili, era stato violato quotidianamente e in modo derisorio. Lo abbiamo fatto mentre ogni gruppo jihadista in tutto il mondo esultava.
Russia, Cina e Iran osserveranno e ne trarranno vantaggio. Chiunque abbia ricevuto delle garanzie dai leader occidentali le considererà comprensibilmente una valuta instabile. Penseranno che la politica occidentale sia derelitta.
Non sorprende quindi che amici e nemici si chiedano: è il momento questo in cui l’Occidente si trova in una ritirata epocale? Non posso credere che è ciò che stiamo facendo, ma dovremo dare una dimostrazione tangibile che non sia così.
Ciò richiede una risposta immediata nei confronti dell’Afghanistan. E una articolazione misurata e chiara di quale sarà la nonstra posizione in merito per il futuro.
Dobbiamo procedere con l’evacuazione e dare rifugio a coloro nei confronti dei quali abbiamo responsabilità: quegli afgani che ci hanno aiutato, ci sono stati accanto e hanno il diritto di esigere che li sosteniamo. Non devono essere ripetute delle scadenze arbitrarie. Abbiamo l’obbligo morale di rimanere fino a quando tutti coloro che hanno bisogno di esserlo saranno evacuati. E non dovremmo farlo di malavoglia, ma con un profondo senso di umanità e responsabilità.
Dobbiamo quindi trovare un modo per trattare con i talebani ed esercitare su di loro la massima pressione. Non è così inane come sembra. Abbiamo rinunciato a gran parte della nostra influenza, ma ne conserviamo ancora un po’. I talebani dovranno affrontare decisioni molto difficili e probabilmente si divideranno profondamente su di esse. Il paese, le sue finanze e la forza lavoro del settore pubblico dipendono in modo significativo dagli aiuti, in particolare da quelli degli Stati Uniti, del Giappone, del Regno Unito e altri. L’età media della popolazione è di 18 anni. La maggioranza degli afgani ha conosciuto la libertà e non ha conosciuto il regime dei talebani. Non si conformeranno tutti in silenzio.
Il Regno Unito, nella veste di attuale presidente del G7, dovrebbe convocare un gruppo di contatto del G7 e di altre nazioni chiave e impegnarsi a coordinare l’aiuto al popolo afgano e a chiedere conto al nuovo regime. La NATO – che ha avuto 8.000 soldati presenti in Afghanistan insieme agli Stati Uniti – e l’Europa dovrebbero essere condotte pienamente alla cooperazione sotto questo raggruppamento.
Dobbiamo stilare un elenco di incentivi, sanzioni e azioni che possiamo portare avanti, anche per proteggere la popolazione civile, in modo che i talebani capiscano che le loro azioni avranno delle conseguenze. Tutto cio è urgente. Il disordine delle ultime settimane deve essere sostituito da qualcosa che assomigli alla coerenza, e con un piano credibile e realistico.
Ma allora dobbiamo rispondere a questa domanda fondamentale. Quali sono i nostri interessi strategici e siamo ancora pronti a impegnarci per sostenerli?
Si confronti la posizione occidentale con quella del presidente Putin. Quando la primavera araba sconvolse il Medio Oriente e il Nord Africa, rovesciando un regime dopo l’altro, percepì che erano in gioco gli interessi della Russia. In particolare, in Siria, sapeva che la Russia aveva bisogno di Assad per rimanere al potere. Mentre l’Occidente esitò e alla fine ottenne il peggio che potesse ottenere – rifiutandosi di negoziare con Assad, ma non facendo nulla per rimuoverlo, anche quando impiegò le armi chimiche contro la sua stessa gente – Putin investì le sue risorse. Ha trascorso dieci anni investendole a tempo indeterminato. E sebbene intervenisse a sostegno di una dittatura e noi intervenissimo per sopprimerne una, lui, insieme agli iraniani, si è assicurato il suo obiettivo. Allo stesso modo, anche se abbiamo rimosso il governo di Gheddafi in Libia, è la Russia, non siamo noi, ad avere influenza sul futuro del paese.
L’Afghanistan è stato difficile da governare durante tutti i vent’ anni della nostra permanenza. E, naturalmente, ci sono stati errori e calcoli errati. Ma non dovremmo illuderci pensando che sarebbe mai potuto essere qualcosa di meno duro di quanto sia effettivamente stato, quando c’era un’insurrezione interna che si combinava con il sostegno esterno – in questo caso, il Pakistan – al fine di destabilizzare il paese e ostacolare i suoi progressi.
L’esercito afgano non ha resistito una volta che il sostegno degli Stati Uniti è stato rimosso, ma 60.000 soldati afgani hanno dato la vita, e qualsiasi esercito avrebbe subito un crollo del morale quando l’efficace assistenza aerea vitale per le truppe impiegate sul terreno è stata rimossa nottetempo.
C’era una corruzione endemica nel governo, ma c’erano anche delle brave persone che facevano un buon lavoro a beneficio della gente. Spesso ha deluso le nostre speranze, ma non è mai stato senza speranza. Nonostante tutto, se strategicamente era rilevante, valeva la pena perseverlo purché il costo non fosse eccessivo e in questo caso non lo era.
Se ne vale la pena, superi la sofferenza. Anche quando sei giustamente scoraggiato, non puoi perderti completamente d’animo. I tuoi amici hanno bisogno di sentirlo e i tuoi nemici hanno bisogno di saperlo.
“Se ne vale la pena”.
Quindi: la vale? Quanto sta accadendo in Afghanistan fa parte di un quadro che riguarda i nostri interessi strategici e li implica in profondità?
Alcuni direbbero di no. Non abbiamo avuto un altro attacco sulla scala dell’11 settembre, anche se nessuno sa se ciò sia dovuto a ciò che abbiamo fatto dopo l’11 settembre o nonostante ciò. Si potrebbe dire che il terrorismo rimane una minaccia ma non una che cosa occupa i pensieri di molti nostri cittadini, certamente non nella misura in cui lo abbia fatto negli anni successivi all’11 settembre.
Si potrebbero considerare i diversi elementi del jihadismo come scollegati, con cause locali e contenibili tramite l’intelligence moderna.
Continuerei a sostenere che se anche ciò fosse giusto e l’azione per rimuovere i talebani nel novembre 2001 non fosse stata necessaria, la decisione di ritirarsi è stata sbagliata. Non costituirà un punto di svolta nella geopolitica.
Ma lasciatemi proporre uno scenario alternativo: che i talebani facciano parte di un quadro più ampio che dovrebbe riguardarci strategicamente.
L’attacco dell’11 settembre è esploso nella nostra coscienza a causa della sua gravità e del suo orrore. Ma la motivazione per una tale atrocità è nata da un’ideologia in sviluppo da molti anni. Lo chiamerò “Islam radicale” in mancanza di un termine migliore. Come mostra un documento di ricerca che sarà pubblicato a breve dal mio Istituto, questa ideologia in diverse forme e con vari gradi di estremismo, ha avuto quasi 100 anni di gestazione.
La sua essenza è la convinzione che la mancanza di rispetto e gli svantaggi che i musulmani subiscono siano esterni all’oppressione causata dalla loro stessa leadership corrotta, e che la risposta stia nel ritorno dell’Islam alle sue radici, creando uno Stato basato non sulla nazione ma sulla religione, con la società e la politica governate da una visione rigorosa e fondamentalista dell’Islam.
È la trasformazione della religione dell’Islam in un’ideologia politica e, di necessità, escludente ed estrema perché in un mondo multireligioso e multiculturale, afferma che ci sia una sola vera fede e che dovremmo tutti conformarci ad essa.
Negli ultimi decenni e ben prima dell’11 settembre, questa visione stava guadagnando forza. La rivoluzione islamica iraniana del 1979 e la sua eco nel fallito assalto alla Grande Moschea della Mecca alla fine del 1979 hanno rafforzato in modo massiccio le forze di questo radicalismo. I Fratelli Musulmani divennero un movimento sostanziale. L’invasione sovietica dell’Afghanistan ha visto crescere il jihadismo.
Nella nostra epoca sono sorti altri gruppi: Boko Haram, al-Shabab, al-Qaeda, ISIS e altri ancora.
Alcuni sono violenti. Alcuni no. A volte litigano tra loro. Ma altre volte, come con l’Iran e al-Qaeda, cooperano. Ma tutti sottoscrivono gli elementi di base della stessa ideologia.
Oggi è in corso un vasto processo di destabilizzazione nel Sahel, il gruppo di paesi della parte settentrionale dell’Africa subsahariana. Qui ci sarà sarà la prossima ondata di estremismo e immigrazione che inevitabilmente colpirà l’Europa.
Il mio Istituto opera in molti paesi africani. A malapena un presidente tra quelli che conosco non pensa che questo sia un grosso problema per loro, e per alcuni sta diventando IL problema.
L’Iran usa proxy come Hezbollah per minare i paesi arabi moderati in Medio Oriente. Il Libano è sull’orlo del collasso. Negli ultimi anni la Turchia si è spostata sempre più lungo il percorso islamista. In Occidente, alcuni settori delle nostre comunità musulmane si sono radicalizzati. Anche nazioni musulmane più moderate come l’Indonesia e la Malesia hanno visto, nel corso di decenni, la loro politica diventare più islamica nella pratica e nel discorso.
Basta non guardare oltre il primo ministro del Pakistan che si congratula con i talebani per la loro “vittoria” per vedere che, sebbene, ovviamente, molti di coloro che sposano l’islamismo siano contrari alla violenza, condividono caratteristiche ideologiche con molti di coloro che la usano – e una visione del mondo che presenta costantemente l’Islam come assediato dall’Occidente.
L’islamismo è una sfida strutturale a lungo termine perché è un’ideologia del tutto incoerente con le società moderne basate sulla tolleranza e sulla laicità dei governi.
Eppure i politici occidentali non riescono nemmeno ad accettare di chiamarlo “Islam radicale”. Preferiamo identificarlo come un insieme di sfide sconnesse, ciascuna da affrontare in sede separata. Se l’avessimo definita una sfida strategica, e l’avessimo vista nel suo insieme e non frazionata in parti, non avremmo mai preso la decisione di ritirarci dall’Afghanistan.
Il nostro pensiero è ritmato im modo errato in rapporto all’Islam radicale. Il comunismo rivoluzionario lo abbiamo riconosciuto come una minaccia di natura strategica, che ci ha richiesto di affrontarlo sia ideologicamente che con misure di sicurezza. Durò più di 70 anni. Per tutto quel tempo, non ci saremmo mai sognati di dire: “Beh, ce ne siamo occupati da molto tempo, dovremmo semplicemente arrenderci”. Sapevamo che dovevamo avere la volontà, la capacità e la forza di resistenza per potercela farcela. C’erano diverse arene di conflitto e impegno, diverse dimensioni, diversi volumi di ansia man mano che la minaccia rifluiva e fluiva.
Ma abbiamo capito che era una vera minaccia e abbiamo unito le nazioni e i partiti per affrontarla.
Questo è ciò che dobbiamo decidere ora a proposito l’Islam radicale. È una minaccia strategica? Se è così, come si uniscono coloro che vi si oppongono, anche all’interno dell’Islam, per sconfiggerlo?
Abbiamo appreso i rischi dell’intervento nel modo in cui siamo intervenuti in Afghanistan, Iraq e addirittura in Libia. Ma il non intervento è anche esso una decisione politica con delle conseguenze.
Ciò che è assurdo è credere che la scelta sia tra ciò che abbiamo fatto nel primo decennio dopo l’11 settembre e la ritirata a cui stiamo assistendo ora: trattare il nostro intervento militare su vasta scala del novembre 2001 come analogo alla sicurezza e al sostegno dellamissione in Afghanistan degli ultimi tempi.
L’interventismo può assumere molte forme. Dobbiamo farlo imparando le giuste lezioni degli ultimi venti anni in base non alla nostra politica a breve termine, ma ai nostri interessi strategici a lungo termine. Ma l’interventismo richiede impegno. Non tempo limitato da orari politici ma dall’obbedienza agli obiettivi.
Per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, tali questioni sono di grande importanza. L’assenza di consenso e collaborazione e la profonda politicizzazione della politica estera e delle questioni di sicurezza stanno visibilmente atrofizzando il potere degli Stati Uniti. E per la Gran Bretagna, fuori dall’Europa e che subisce la fine della missione in Afghanistan da parte del nostro più grande alleato con poche o nessuna consultazione, abbiamo una seria riflessione da fare. Non lo vediamo ancora. Ma siamo a rischio di retrocessione nella seconda divisione dei poteri globali. Forse non ci importa. Ma dovremmo almeno prendere la decisione deliberatamente.
Ci sono ovviamente molte altre questioni importanti nella geopolitica: Covid-19, clima, ascesa della Cina, povertà, malattie e sviluppo. Ma a volte un problema arriva a significare qualcosa non solo per se stesso, ma in veste di metafora, come un indizio sullo stato delle cose e sullo stato dei popoli.
Se l’Occidente vuole plasmare il 21° secolo, ci vorrà impegno. Tra alti e bassi. Quando sarà difficile oltre che facile. Assicurarsi che gli alleati abbiano fiducia e che gli avversari siano prudenti. Acquisire una reputazione per la costanza e il rispetto del piano che abbiamo e l’abilità nella sua attuazione.
Richiederà che parti della destra capiscano che l’isolazionismo in un mondo interconnesso è controproducente e parti della sinistra accettino che l’interventismo a volte può essere necessario per sostenere i nostri valori.
Ci richiede di imparare le lezioni dai vent’ anni trascorsi dall’11 settembre in uno spirito di umiltà – e nel rispettoso scambio di diversi punti di vista – ma anche con un senso di riscoperta che noi in Occidente rappresentiamo valori e interessi di cui essere orgogliosi e che difendiamo.
E quell’impegno verso quei valori e interessi deve definire la nostra politica e non la nostra politica definire il nostro impegno.
Questa è la grande questione strategica posta da questi ultimi giorni di caos in Afghanistan. E dalla risposta dipenderà la visione che il mondo ha di noi e la nostra visione di noi stessi.
Traduzione di Niram Ferretti