Israele e Medio Oriente

Terrorismo istituzionalizzato e demolizioni

La questione delle demolizioni delle case dei terroristi palestinesi è senza dubbio uno degli strumenti, più utilizzati nell’armamentario dei diffamatori di Israele allo scopo di accusare lo Stato ebraico di presunte violazioni del diritto internazionale, senza tra l’altro specificare (come sempre) quale legge, nello specifico Israele, violerebbe. Non fa eccezione l’ultimo report di Amnesty International.  

Prima di addentrarci nella questione specifica delle demolizioni, è opportuno descrive il contesto nel quale è stata decisa questa risposta agli attentati terroristici che negli ultimi venticinque anni ha causato un numero di vittime (in base alla dimensione demografica di Israele) ben maggiore di quelli occorsi in USA, Francia, Belgio, Spagna, Gran Bretagna e Russia messi insieme.

Se consideriamo le rispettive risposte di USA (invasione di Afghanistan e Iraq) e Russia (due guerre devastanti in Cecenia) agli attentati terroristici subìti si capisce subito che l’approccio di Israele è estremamente moderato e del tutto legittimo. 

Quando e perché Israele ha iniziato questa politica di deterrenza contro il terrorismo? Dopo lo scoppio della Seconda intifada.

Per capire il perché di questa scelta (tutt’altro che condivisa nello schieramento politico) bisogna comprendere bene la natura del terrorismo palestinese che di fatto, dopo gli accordi di Oslo del 1993, è diventato “istituzionalizzato”.

In pratica l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) prima con Yasser Arafat e poi con Abu Mazen ha “creato” la figura del terrorista “stipendiato pubblico”, cioè ricevitore di un lauto salario a lui o sotto forma di pensione ai suoi familiari, versato come premio per l’omicidio di civili. Questa prassi politica istituzionale di pagamento di uno stipendio per aver compiuto un atto terroristico non ha paralleli in tutto il mondo nè oggi nè li ha avuti nel passato.

Nel corso degli anni la prassi dell’ANP ha assunto una proporzione clamorosa: praticamente il 30% dell’intero budget annuale è destinato al pagamento di stipendi e pensioni per i terroristi o per relative famiglie. Attualmente i terroristi in Israele che stanno scontando pene detentive sono circa 13.000. In proporzione è come se lo Stato italiano pagasse lo stipendio a circa 200.000 dipendenti pubblici che abbiano commesso direttamente o indirettamente degli omicidi di civili. Di questa “pratica” nessun governo, ad iniziare dalla UE, che contribuisce massicciamente al budget dell’ANP ha mai chiesto ragioni. Ne tanto meno hanno fatto le ONG così attente al rispetto del diritto internazionale. l’Informale, se ne è già occupato più nel dettaglio qui (http://www.linformale.eu/lautorita-nazionale-palestinese-e-la-finta-lotta-al-terrorismo/).

Come è facilmente intuibile delle dimensioni gigantesche dei numeri, non è un’esagerazione parlare di terrorismo istituzionalizzato e capillare. Nell’ottica di contrastare questa situazione, lo Stato Maggiore dell’IDF ha deciso di introdurre la pratica dell’abbattimento delle abitazioni dei terroristi condannati in modo definitivo per creare un deterrente finalizzato a scoraggiare il terrorismo. Sulla sua efficacia ci sono dubbi (molte statistiche pubblicate in Israele vorrebbero dimostrare la sua inefficacia) ma una cosa è certa: se nessun governo degli Stati donatori dell’ANP non protesta, non minaccia la revoca delle donazioni e non fa pressioni sull’ANP il sistema in atto non può avere fine. Ad esempio, se UE e USA anziché limitarsi a levare proteste quando l’esercito viene autorizzato ad abbattere le abitazioni dei terroristi, si impegnassero a obbligare l’ANP a sospendere i pagamenti ai terroristi e alle loro famiglie per destinarli altrove, molto probabilmente il fenomeno si ridurrebbe drasticamente e di conseguenza l’abbattimento delle abitazioni cesserebbe.

Entrando più nel dettaglio dei provvedimenti si scopre un modus operandi che ha una fisionomia assai diversa dalla ritorsione descritta da giornali, ONG e rappresentanti della UE. Infatti, quando si esegue una demolizione di un appartamento o di una casa, è sempre preceduta dalla sua notifica agli eventuali occupanti in modo che abbiano il tempo di ricorrere a un tribunale per sospendere o annullare l’atto.

Nel corso degli ultimi venti anni sono stato centinaia i casi di sospensione o annullamento deciso dai giudici israeliani, tra i quali è giusto ricordare il giudice arabo George Kara che quando ha ravvisato delle illegalità procedurali ha dichiarato nullo il provvedimento. In altri casi Kara ha autorizzato la demolizione.

Essendo tutti procedimenti al vaglio della magistratura non si può certo parlare di “ritorsione” o “punizione collettiva” come troppo spesso – e in mala fede i funzionari UE e del Dipartimento di Stato Usa hanno descritto i provvedimenti. Non sono stati rari i casi di palazzine di vari piani o appartamenti nei quali veniva demolito solo l’appartamento che era stato utilizzato come base per compiere l’attentato mentre gli appartamenti attigui, benché occupati da parenti stretti dell’attentatore, non sono stati toccati perché il giudice non ha ravvisato gli estremi per l’abbattimento in quando non c’erano prove inconfutabili che altre unità abitative fossero state utilizzate anch’esse come basi. Ogni decisione di demolizione è vagliata attentamente dai giudici e solo quando l’esercito presenta prove inconfutabili si procede alla demolizione.

In conclusione, accusare Israele di operare demolizioni indiscriminate e di violare il diritto internazionale con pratiche di “punizione collettiva” è del tutto falso e fuorviante. Questo perché ogni decisione è vagliata in modo a se stante e a fronte di centinaia di casi, molti sono stati quelli conclusosi con la demolizione, molti altri con demolizioni parziali e in altri casi con l’annullamento del provvedimento. Ciò che deve fare riflettere è che a fronte di centinaia di richieste di demolizione ci sono centinaia di uccisioni di civili che non vengono mai menzionate dai funzionari UE, dalle ONG e dai mass media, dando così la voluta impressione che Israele agisca nell’illegalità.          

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