No, non si è trattato dell’apocalisse. L’attacco missilistico americano in Siria su obbiettivi calibrati, con l’appoggio del Regno Unito e della Francia, avvenuto questa notte ha ottenuto il risultato che si era prefissato. Non un regime change, mai stato nelle intenzioni dell’Amministrazione Trump, non una zampata aggressiva e dissennata, non un piano segreto noto soprattutto ai complottisti che si affastellano con le loro teorie demenziali sui social network e altrove. No, i neocons non stanno tornando. Trump non ha nessuna intenzione di esportare via bombardieri B-1 e missili Tomahawk la democrazia in Siria.
Alla Casa Bianca, ora, la squadra d’assetto e d’assalto è formata da realisti impenitenti che hanno come principio guida quello della deterrenza, della vigilanza e dell’avviso cautelativo. Mike Pompeo, nuovo Segretario di Stato in pectore ma soprattutto John R. Bolton, il grande teorico di una America che first of all sa identificare chi sono i regimi ostili agli interessi americani, non sono romantici idealisti che vogliono proporre gli USA come faro per il mondo. Si tratta innanzitutto di mettere in chiaro che ci sono precise linee di confine, in una guerra in cui gli Stati Uniti sono già impegnati dal 2011, che essi non ammetteranno che siano attraversate.
La linea rossa tracciata da Barack Obama a Bashar al Assad nel settembre del 2013, e da lui bellamente superata con l’attacco di Kafr Zita già nel 2013 e soprattutto con quello di Khan Sheikhun nel 2017 che causò il primo raid americano, è ora ulteriormente ribadita con un secondo intervento. Ne seguiranno sicuramente altri se Vladimir Putin, il “garante” della distruzione dell’arsenale di armi chimiche di Assad nel 2013 (cosa di cui molti oggi sembrano essersi dimenticati), non farà capire al suo protetto che alla fine il suo uso di armi chimiche causa anche a lui dei problemi di gestione.
L’attacco chimico di Douma certifica nuovamente come Assad non abbia alcuna intenzione di desistere quando si tratta di affrettare una vittoria laddove metodi meno spicci costerebbero tempi più lunghi di assedio e costi maggiori in termini di uomini, cose che il rais di Damasco non può permettersi.
La questione delle armi chimiche è quella fondamentale per comprendere il senso dell’intervento americano, a tutela della Convenzione Sulle Armi Chimiche del 1993 sottoscritta anche dalla Siria. Il loro uso, in contrasto con le normative stabilite, senza che vi sia una risposta forte e determinata, è solo un segnale devastante per regimi canaglia e per chi è alla loro guida. Si tratta di mostrare un’altra volta ad Assad e a chi lo tutela che l’uso di armi non convenzionali ha un costo molto maggiore della decisione di non usarle. Tutto il resto, la coltre di inganno stessa della Russia con gli abituali rodati metodi di disinformazione, le farneticazioni sullo scoppio della Terza Guerra Mondiale, le apologie di Putin e di Assad che conterrebbero le orde islamiche (mentre l’Iran si infeuda in Siria ed esporta il terrorismo in quasi tutta la regione), è opera buffa, teatro per le solite tricoteuses antiamericane.
Tornando alla realtà, il bombardamento di stanotte è stato assai preciso nel colpire un centro di ricerca scientifica nell’area di Damasco utilizzato per la ricerca e la produzione di armi chimiche e biologiche, un deposito di armi chimiche a ovest di Homs e un altro deposito per lo stoccaggio di armi chimiche sempre a Homs. “Uno strike perfettamente riuscito” ha tweetato Donald Trump a cui, di rincalzo, si è aggiunto in serata Benjamin Netanyahu: “Deve essere chiaro al presidente Assad che il suo scriteriato sforzo di acquisire armi di distruzione di massa, il suo smodato disprezzo per la legge internazionale e il suo mettersi a disposizione per il venire in essere in Siria di un avamposto per l’Iran e i suoi alleati mettono in pericolo il paese”.
Che sia chiaro ad Assad è da vedere, più certo è che lo sia al garante russo.