E’ la scommessa più ardita della sua carriera politica, quella che Netanyahu tenta per il 17 settembre, quando Israele tornerà di nuovo al voto in virtù dell’impasse in cui si è trovato il premier israeliano uscito vincitore dalle elezioni del 9 aprile.
Il tentativo di Netanyahu di formare un nuovo esecutivo si è scontrato contro l’inamovibilità del suo ex Ministro della Difesa e leader del partito Israel Beytenu, Avigdor Lieberman, già dimessosi il novembre scorso reputando troppo morbida la linea dell’esecutivo nei confronti di Hamas. Questa volta il contenzioso era il disegno di legge promosso dall’ex ministro relativo all’incremento della coscrizione obbligatoria per i giovani ultraortodossi.
Questione di grande rilevanza in Israele, dove solo un decimo dei circa trentamila maschi religiosi idonei per il servizio militare, si arruolano ogni anno nell’esercito. Il disegno di legge voluto da Lieberman ne avrebbe alzato la quota a seimila. Dunque, una legge sostanzialmente simbolica più che impattante. Nonostante questo, chiaramente volta a mostrare ai religiosi che il tempo delle concessioni illimitate è volto al termine. Motivo per il quale, questi ultimi si sono opposti frontalmente.
In quella che sembra una posizione di principio; la difesa della laicità dello Stato contro il montare del potere dei religiosi nell’influenzare le scelte dell’esecutivo, Lieberman sembra figurare come un laico tutto di un pezzo che vorrebbe liberare il governo dall’ipoteca pagata agli ultraortodossi. Peccato che, per vent’anni, come ha ricordato con sarcasmo Netanyahu, il leader di Israel Baytenu abbia convissuto e negoziato con i partiti religiosi senza mai fare battaglie di principio.
E’ dunque difficile vederlo nel ruolo che si vorrebbe assegnare e più facile ritenere che sia la sua ambizione personale di potere un giorno sostituire Netanyahu alla guida di un esecutivo quello che lo ha spinto a mettere il premier nell’angolo nel momento politicamente più difficile della sua lunga carriera.
La decisione di convocare nuovamente le elezioni in Israele (decisione obbligata ma irrituale per neutralizzare l’eventualità che il presidente Rivlin potesse assegnare l’incarico di formare il governo a qualcun altro ) rappresenta, infatti, per Netanyahu una mossa sul filo del rasoio di cui ha assoluta necessità al cospetto dell’audizione che si terrà ai primi di ottobre davanti al Procuratore Generale Mandelblit. E’ in questa circostanza che Mandelblit, ascoltate le ragioni degli avvocati di Netanyahu, deciderà se rinviare o meno il premier a giudizio per i reati di cui è accusato, abuso di ufficio e corruzione.
Nel caso in cui Netanyahu dovesse vincere di nuovo ed essere in grado di formare un esecutivo, il tempo a disposizione per tutelarsi legislativamente da un eventuale rinvio a giudizio sarebbe assai più breve. Inoltre, anche se il Likud dovesse arrivare al 40% dei voti, gli sarebbe sempre comunque necessario creare una alleanza con partiti minori che avrebbero in mano saldamente il suo destino.
In extremis, nel tentativo di formare il governo, Netanyahu ha cercato un accordo con lo screditato leader del partito laburista Avi Gabby, promettendogli vari ministeri e di addolcire l’offensiva contro il potere giudiziario. E’ la dimostrazione di un tatticismo disperato, dell’arrancare di un re che vede scivolare via la corona da poco riconquistata e tenta il tutto per tutto per tenerla in capo.
Sullo sfondo di tutto ciò, nonostante il Likud sembra ancora essergli fedele, cominciano ad avvertirsi delle crepe. Da qui a settembre, i colpi di scena potrebbero essere diversi. Il partito lo sosterrà ancora graniticamente, o ci saranno defezioni?
Per quanto sia consigliabile agli avversari di Netanyahu non vendere ancora la sua pelle, è difficile scrollarsi di dosso la sensazione che quella attuale possa essere per il premier, dopo la riconferma di aprile, una strada senza uscita, il preludio di una finis regni.