La gravità e l’eccezionalità delle parole pronunciate da Joe Biden non può essere sottostimata. Interrogato dalla stampa in merito alla situazione israeliana dell’ultimo mese, mentre è in procinto di salire a bordo dell’Air Force One, il presidente americano esprime la sua preoccupazione per lo Stato della democrazia in Israele. Afferma che Israele “non può continuare lungo questa strada” per poi aggiungere, “Ci si augura che il primo ministro agisca in modo da raggiungere un compromesso genuino, bisognerà vedere”. Di seguito, alla domanda se è prevista una prossima visita di Netanyahu a Washington, Biden risponde, “Non a breve termine”.
Il quadro non può essere più esplicito insieme al suo sottotesto. “Fai la riforma della giustizia che piace a noi e poi, dopo, potrai venire a Washington”.
Per la prima volta nella storia delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, fatte di alti e bassi costanti, un presidente americano in carica interviene in modo plateale su una questione squisitamente di politica interna israeliana, trattando lo Stato ebraico come un piccolo feudo, una dependance che deve essere ordinata secondo i criteri di proprio piacimento.
Alle dichiarazioni di Biden, Benjamin Netanyahu risponde in modo netto. Dopo avere evidenziato ritualmente il lungo rapporto di amicizia con gli Stati Uniti, dichiara che Israele “E’ uno Stato sovrano, che prende le sue decisioni in base alla volontà del popolo non basandole sulle pressioni che vengono da oltreoceano, incluse quelle dei migliori amici”.
In realtà, le dichiarazioni di Biden, pur nella loro proterva irritualità, non meravigliano più di tanto chi ha seguito lo svolgersi degli avvenimenti da quando, a dicembre, si è insediato il governo Netanyahu, e quindi successivamente al suo insediamento. Una vittoria che a Washington non è stata assolutamente gradita perchè troppo di destra. Tutto il resto discende per li rami.
A gennaio, quando arriva in Israele in visita Antony Blinken, Segretario di Stato, durante la conferenza stampa con Netanyahu, rivolgendosi al premier gli dice che l’annunciata riforma della giustizia, dovrebbe essere fatta con il più ampio dei consensi. Il messaggio, formulato nel linguaggio felpato dell’understatement non può essere più esplicito: Se procederai unilateralmente ti scontrerai con noi.
Non è difficile a una vecchia volpe della politica come Netanyahu intendere subito che la strada della riforma sarà in salita, e che chi si opporrà ad essa avrà il plauso e il sostegno americano. Solo pochi sprovveduti possono pensare che le manifestazioni imponenti contro la riforma, che hanno rischiato di paralizzare il paese e hanno portato Israele a una situazione di scontro tra opposizione, piazza ed esecutivo, come non si era mai verificata prima, non abbiano goduto di una amplissima rete di sostegno politico mediatica, con forte sponda a Washington.
L’invasività dell’Amministrazione Biden negli affari interni di Israele dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto sia effettivamente cruciale la riforma della Corte Suprema, un potere abnorme la cui natura ideologica è perfettamente omogenea a quella progressista americana, ed evidenzia ulteriormente il fastidio della Casa Bianca nei confronti del governo che ha vinto legittimamente le ultime elezioni.
La fermezza della risposta di Netanyahu all’ingerenza americana non potrà che costargli un prezzo, su questo non ci possono essere dubbi, ma Israele pagherebbe un prezzo ben maggiore, quello di vedere lesionata in modo umiliante la proprià autonomia e sovranità, se piegasse la testa di fronte a chi, oltreoceano, ritiene di dovere stabilire per esso come debbano configurarsi i propri affari interni.