Avraham Yehosuha, di cui ci siamo già occupati, costituisce insieme ad Amos Oz e David Grossman la più celebre trimurti de-occupazionista israeliana. Per Yehoshua e gli altri due celebri scrittori israeliani il grande peccato di Israele è “l’occupazione” della Giudea e Samaria (Cisgiordania-West Bank) da parte dell’esercito israeliano dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967. Certo, Yehoshua è consapevole di una certa animosità araba e islamica nei confronti di ebrei e israeliani, tuttavia l’”occupazione” trafigge e fa sanguinare il suo cuore di illuminista progressista. Una volta rimossa, le cose andranno bene.
In una recente e lunga intervista concessa a Wlodek Goldkorn dell’Espresso, Yehoshua tesse la sua narrazione sul conflitto alternando menzogne e whisful thinkings che purtroppo si scontrano con il solito inscalfibile scoglio rappresentato dalla pietra dura dei fatti, che, nella fantasia del romanziere, diventa molle come plastilina e plasmabile in molti modi.
Ma occorre ascoltarlo.
“Il fatto è che i palestinesi ripetutamente hanno rifiutato le vane offerte dei vari premier israeliani; da Rabin a Barak a Olmert. La loro leadership non è mai stata in grado di prendere decisioni difficili. E così oggi gli stessi palestinesi sono consci del fatto che, nel quadro di una ipotetica spartizione della Palestina storica (Israele più Cisgiordania) il massimo che possono ottenere è un territorio frammentato, discontinuo. Ho detto che sono consci, ma talvolta ho invece l’impressione che la leadership palestinese speri in un miracolo, un qualcosa di prepolitico che risolva i problemi. Ma poi, al di là delle mie critiche e della sua narrazione della quotidianità (e vorrei ricordarle che ci sono interi strati della popolazione che soffrono) va detto che la realtà dell’occupazione militare è disgustosa e perversa. E non se ne vede la fine. Il numero dei coloni è in crescita e loro sono sempre più arroganti. Ogni tanto mi viene la voglia di dire ai palestinesi: ma vi rendete conto che più dura l’occupazione e più terra vi viene confiscata, rubata? Mi permetta di aggiungere un altro elemento: i palestinesi cittadini israeliani. Sono quasi due milioni, potrebbero avere 25 deputati sui 120 in Parlamento e cambiare fin dalle fondamenta la stessa struttura della nostra politica. Invece ci sono solo 13 deputati palestinesi che litigano tra di loro. Prendiamo il caso dell’Irlanda ai primi del Novecento: i deputati Irlandesi al parlamento di Londra hanno saputo lavorare dentro le istituzioni inglesi per favorire la nascita di una repubblica nel Sud della loro isola. I palestinesi nostri non ne sono capaci e mi dispiace”.
Su una cosa Yehoshua ha ragione. Va detto subito. E’ quando afferma che “la leadership palestinese spera in un miracolo”. Si tratta infatti della sparizione di Israele. Intento perseguito fin dalla fondazione dell’OLP nel ’64, non a caso la “l” e la “P” nell’acronimo stanno per “liberazione” della “Palestina” dal Giordano al Mediterraneo. Ma è un miracolo che non è occorso, al suo posto, invece c’è stato l’altro miracolo, quello della persistente esistenza di Israele, circondato com’è da nemici che hanno tentato a più riprese di farlo fuori. Al di là di questa breve considerazione tocca soffermarsi sulla rappresentazione nera dei “coloni”, veri e propri villain che così tanto appassionano Yehoshua e i suoi sodali letterari (e non solo loro, naturalmente). Essi “confischerebbero” e “ruberebbero” la terra ai palestinesi. Curioso. Perché una proprietà venga confiscata e rubata essa deve avere un legittimo proprietario. Tuttavia i territori della Giudea e Samaria, assegnati senza limitazioni dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922 agli ebrei per potervisi insediare e successivamente annessi illegalmente dalla Giordania nel 1951 fino al 1967, non hanno un legittimo assegnatario, anche se, con ottime ragioni, (la Conferenza di San Remo del 1920 e appunto e il Mandato Britannico del 1922), Israele potrebbe rivendicarne piena e legittima sovranità. Ma questo a Yehoshua non interessa. A lui, romanziere di successo interessa la fiction dei coloni espropriatori, perfettamente funzionale alla narrativa dei palestinesi vittime espropriate. Ma non si ferma qui. Come da estratto, si auspica un incremento della presenza araba alla Knesset. 13 deputati sono pochi. Dovrebbero essere almeno il doppio e fare come i deputati irlandesi. Favorire la nascita di una repubblica palestinese. Invece litigano. Peccato. Soprattutto continuano a chiamare i terroristi “resistenti” e ad appoggiare la propaganda antiebraica e antisionista dell’Autorità Palestinese. Andrebbe fatto notare allo scrittore che tra gli irlandesi e i palestinesi c’è la stessa differenza che sussiste tra i cinesi e gli svedesi. Basta paragonare l’Accordo di Good Friday del 1998 raggiunto in Irlanda e che ha messo fine ad anni di sanguinosa lotta civile con gli Accordi di Oslo del 1993, dopo i quali Arafat, diversamente dall’IRA, diede vita con la Seconda Intifada, al più sanguinoso periodo di terrorismo che Israele ricordi.
Ma proseguiamo.
“Al netto delle sue analisi: oggi una soluzione di due Stati non è più possibile. Dobbiamo cambiare il paradigma se non vogliamo diventare una società e uno Stato di apartheid. Mi spiego: nel 2005 siamo fuggiti da Gaza. I palestinesi ci hanno sconfitti. Il nostro esercito aveva perso. E cosa è successo? Ci hanno sparato addosso i razzi. Il precedente di Gaza ha fatto sì che molti israeliani hanno paura di un possibile ritiro dalla Cisgiordania. E questo, ripeto, mentre continua l’espansione degli insediamenti. Ecco, non è più possibile sradicare i coloni. Non c’è oggi un’autorità in grado di costringerli a lasciare le terre che hanno rubato. Ora come ora la situazione (prendendo in considerazione Israele più la Cisgiordania) è complessa. Potrei descriverla cosi: gli arabi israeliani hanno quasi tutti i diritti; quelli di Gerusalemme Est, qualche diritto, quelli dell’Autorità nazionale palestinese (che controlla il 40 per cento della Cisgiordania) un pezzettino di sovranità. Resta la realtà dell’occupazione militare. Ci sono palestinesi privi di qualunque diritto. Ed è una situazione insopportabile per qualunque persona voglia definirsi un democratico”.
Occorre domandarsi a quale “fuga” da Gaza da parte israeliana Yehoshua si riferisca, ma non è dato saperlo, e l’intervistatore non gli pone la domanda. Non ci fu alcuna sconfitta dell’esercito israeliano se non nella fervida immaginazione dell’anziano romanziere. Ariel Sharon decise la smobilitazione di Israele da Gaza per blindare la Giudea e la Samaria e concedersi a seguito di questa concessione, l’annessione di due rilevanti insediamenti come Ma’ale Adumim e Ariel (cosa che non avvenne). Altro che fuga, si trattò di una mossa politica precisa. Quanto alla “continua espansione degli insediamenti”, anche qui ci troviamo al cospetto di un’altra fabula. Dal 2004 è in vigore l’accordo che Ariel Sharon fece con l’Amministrazione Bush il quale permette l’espansione degli insediamenti in esistenza all’interno del confine di costruzione degli edifici già in essere e non oltre di esso. Quasi tutte le costruzioni che sono state autorizzate dal governo Netanyahu si trovano o a Gerusalemme o nell’ambito degli insediamenti autorizzati dagli americani. Veniamo ai “palestinesi privi di qualsiasi diritto”. Bisognerebbe capire chi siano e dove sono localizzati. Yehoshua intende riferirsi ai palestinesi che in Cisgiordania si trovano nell’Area A interamente amministrata dall’Autorità Palestinese, nell’Area B, ad amministrazione congiunta, o nell’Area C, a sovraintendenza israeliana? Non è dato saperlo. Ma la frase che indica una casta di palestinesi paria non manca di esercitare il suo effetto affabulatorio sulla mente del lettore sprovveduto. Anche qui l’intervistatore glissa.
Il canovaccio prosegue. Occorre vederlo fino in fondo perché ci riserverà ulteriori sorprese.
“Oggi, da democratico, da persona razionale e illuminista, voglio l’uguaglianza dei palestinesi di fronte alla Legge. Israele deve offrire ai palestinesi della Cisgiordania la cittadinanza; con tutti I vantaggi: dal servizio sanitario al sistema pensionistico. Ma, ripeto: la cosa più importante è l’assoluta uguaglianza davanti alla Legge. Non sono un ingenuo. E probabile che molti non vorranno prendere la cittadinanza israeliana. Molti diranno: accettarla significa approvare l’annessione della Cisgiordania a Israele. Ed è ovvio che io non posso imporre loro la cittadinanza. Ma l’importante è il gesto, l’intenzione: per me voi siete cittadini con pari dignità e uguali”.
E qui assistiamo al pieno divorzio con i fatti. L’illuminismo, ci mancherebbe, va benissimo, solo che per essere davvero tale dovrebbe spandere più luce sulla realtà e non avvolgerla di bei pensierini con la messa in piega, perché purtroppo sarà poi la realtà a incaricarsi brutalmente di spettinarli. In un recente sondaggio, Daniel Polisar, del Jerusalem Shalom College ha rilevato che in una proporzione di 3 a 1, i palestinesi rifiutano uno stato palestinese a fianco di uno stato israeliano. Tuttavia per lo Yehoshua, “razionale e illuminista”, Israele dovrebbe offrire ai palestinesi della Cisgiordania, indottrinati fin da bambini con la propaganda secondo la quale tutta la Palestina appartiene di fatto ai palestinesi, che gli israeliani sono degli usurpatori omicidi, che i terroristi sono martiri da onorare con piazze e strade in loro nome, la cittadinanza. Come quella già data a una buona parte dei terroristi arabi-israeliani che si sono distinti dal 2015 a oggi in uccisioni di civili e militari israeliani. L’ultimo episodio registrato quello del luglio scorso al Monte del Tempio, quando due poliziotti di guardia vennero ammazzati da un commando di terroristi arabo-israeliani. Ma a Yehoshua la realtà non interessa. Come tutti gli allucinati di astrazioni valgono solo i principii, non i fatti.
Non possiamo congedarci se non giungendo fino in fondo, o meglio, toccando il fondo di questa devastante débâcle cognitiva. Per Yehoshua l’odio nei confronti degli arabi, che egli vede crescere nella società israeliana è dovuto a
“Due motivi: perché loro sono deboli e perché noi ci sentiamo in colpa. Si odiano i deboli e le vittime, è un meccanismo universale”.
Dunque ecco fissato il paradigma. L’odio, o l’avversione da parte israeliana, non è dovuta alla consapevolezza che da parte araba sussiste un rigetto permanente di Israele e degli ebrei che si è manifestato negli anni con tre guerre nate da una intenzionalità genocida e successivamente da un terrorismo continuativo che raggiunse l’apice con la Seconda Intifada. No. Tutto questo scompare dalla scena. Al suo posto c’è la colpevolezza ebraica, il senso di colpa ebraico, nei confronti delle “vittime”, i palestinesi.
Quando si giunti ad invertire a tal punto la realtà si può solo affermare che si è arrivati a uno stato terminale. Lo stesso che pervade ormai l’Occidente meaculpista e schiere di intellettuali i quali, come scriveva Leszek Kolakowski, scartano “ostentatamente i valori della loro civiltà per umiliarsi di fronte allo splendore di una inequivocabile barbarie”.