Le parole creano un mondo diverso. Nel tempo, diventano cariche di deduzioni e allusioni e, usate in modo efficace, hanno il potere di cambiare la struttura stessa della nostra civiltà. Per esempio, la frase “civil rights” potrebbe ragionevolmente essere applicata a qualsiasi diritto di ogni cittadino del mondo, eppure istintivamente la associamo a quel movimento omonimo che ha per sempre alterato il panorama politico e sociale degli Stati Uniti negli anni 1950 e 1960.
La parola “apartheid” ha simile risonanza storica. Crescendo in Sud Africa, mi sono reso conto della diversa condizione di vita cui era costretta la maggioranza nera. Mi sono trovato di fronte ogni giorno ad una società che avrebbe regolarmente degradato e sminuito i neri sudafricani, non solo culturalmente e socialmente, ma anche agli occhi della legge. Tutte le società lottano contro la piaga del pregiudizio, ma la convalida legale del pregiudizio rende l’oppressione una virtù.
Sono eternamente grato di essere cresciuto con la mia famiglia a Città del Capo, dove l’immoralità dell’apartheid mai ha influenzato il modo in cui abbiamo interpretato il mondo. Mio padre, che è un rabbino, ha predicato contro l’apartheid e ha visitato i prigionieri politici a Robben Island. La mia defunta madre era la direttrice della scuola universitaria per l’abilitazione all’insegnamento Athlone, che all’epoca era l’unico college per maestre d’asilo nere del paese. Come è stato per altre strutture simili, sarebbe poi diventato noto come focolaio di attivismo. La lotta degli studenti era la sua lotta e loro i miei fratelli e ancora oggi vorrei sentire alla fine di ogni giorno le storie delle sfide che devono affrontare e della dura realtà della loro vita. Quelle esperienze rimangono tra le più importanti dei miei primi anni.
Questa settimana, nei campus universitari di tutto il Regno Unito, gli attivisti stanno preparando l’evento “Israel Apartheid Week”.
Postilla: non la settimana del “nazionalismo” o della “consapevolezza” palestinese, concentrandosi sul benessere del popolo palestinese, ma una settimana dedicata ad attaccare Israele, il suo governo, la sua gente, la sua stessa esistenza. Il messaggio implicito è semplice: Israele oggi è ciò che il Sudafrica è stato nella seconda parte del XX secolo. È un confronto completamente falso; un grave insulto a chi ha sofferto sotto l’apartheid; un tragico ostacolo alla pace.
Il paragone tra i due paesi non potrebbe essere più inappropriato. In regime di apartheid, una struttura giuridica basata sulla gerarchia razziale ha governato ogni aspetto della vita quotidiana. Ai neri sudafricani è stato negato il voto. Essi erano tenuti per legge a vivere, lavorare, studiare, viaggiare, godere di attività ricreative, ricevere cure mediche e persino andare in bagno separatamente da quelli con un colore diverso di pelle. Relazioni e matrimoni interrazziali erano illegali. Era la sottomissione nella sua forma più cruda.
Non c’è analogia alcuna con Israele, un paese in cui arabi, drusi, beduini, etiopi, russi, baha’i, armeni e altri cittadini sono considerati uguali davanti alla legge. Chiunque capisca veramente cosa sia stato l’apartheid non può assolutamente indicare Israele oggi e onestamente affermare che vi sia alcun tipo di similitudine. Basterebbe solo visitare Hand in Hand, un’organizzazione che gestisce scuole in cui gli alunni ebrei e arabi studiano insieme, oppure incontrare il giudice arabo-israeliano Salim Joubran della Corte Suprema di Israele. Basterebbe sapere della nomina, lo scorso mese, di Mariam Kabaha in qualità di commissario nazionale per le pari opportunità di lavoro nel ministero dell’economia, o apprendere che proprio questo mese Jamal Hakrush è stato il primo arabo musulmano ad essere nominato vice commissario della polizia israeliana.
In effetti, la differenza è così forte che si potrebbe pensare che sia opportuno ignorare del tutto ogni paragone con l’apartheid. Eppure la tragica realtà è che, ogni volta che questa parola è usata nel contesto del conflitto tra israeliani e palestinesi, le parti in causa si polarizzano ulteriormente e la pace si allontana sempre di più. Essendo la parola “apartheid” un simbolo di malvagità, può essere solo incassata da Israele con risentimento e sospetto. A loro volta, gli estremisti palestinesi possono solo beneficiare del rafforzamento del concetto che l’esistenza stessa di Israele sia illegittima. In breve, il paragone con l’apartheid rafforza coloro che cercano di dividere e ostacola coloro che cercano la pace.
Questa settimana incontrerò F. W. de Klerk, l’uomo che ha liberato Nelson Mandela e ha lavorato duramente per porre fine all’apartheid in Sud Africa, per discutere di questo e di altre questioni. Fra qualche giorno si unirà a me per partecipare ad un evento di raccolta fondi per un ente di beneficenza che fornisce istruzione ai bambini poveri in Israele. Egli ha chiarito la sua opinione secondo cui coloro che sostengono il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) contro Israele sono fuorvianti e non contribuiranno a promuovere una soluzione pacifica. Non ci può essere nessuno in una posizione migliore della sua per formulare un tale giudizio.
Io personalmente traggo molta ispirazione dallo Stato di Israele e sono orgoglioso dei suoi successi. Israele è nato contro ogni previsione e, pur dovendo lottare ogni giorno per la sopravvivenza, è diventato una della avanguardie mondiali nel campo della medicina, della tecnologia, della scienza, dell’agricoltura e non solo. Ma naturalmente, come anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto, Israele non è perfetto, nessun paese lo è. Le sfide che deve affrontare, sia esterne che interne, sono urgenti e gravi. E tuttavia, la bellezza della democrazia di Israele, unica in Medio Oriente, è che non esiste alcun problema sociale o politico che non si possa affrontare all’interno del parlamento, o che non possa essere menzionato dalla stampa libera e dalla società civile.
Di: Ephraim Mirvis, Rabbino Capo delle Comunità ebraiche Unite del Commonwealth