Interviste

Sfide Impegnative in Medioriente: intervista a Daniel Pipes

Daniel Pipes, uno dei maggiori esperti di Medioriente, islamismo e jihadismo, fondatore e presidente del Middle Eastern Forum, è stato direttore del Foreign Policy Research Institute.
Professore all’Università di Chicago, a Harvard e al Naval War College è autore di centinaia di articoli e numerosi libri, tra i quali vogliamo ricordare, The Long Shadow: Culture and Politics in the Middle East (1990), Miniatures: Views of Islamic and Middle Eastern Politics (2003) e Nothing Abides: Perspectives on the Middle East and Islam (2015).
Ha accettato cortesemente di essere nuovamente intervistato da L’Informale.

Professor Pipes, il primo viaggio all’estero del presidente Trump, prima di Israele e del Vaticano sarà in Arabia Saudita. Cosa ne pensa di questa scelta a sorpresa?
Tutto quello che fa Donald Trump sorprende, a partire dal suo annuncio di due anni fa che si sarebbe candidato alle presidenziali. Questo viaggio rientra in questo contesto di imprevedibilità. E’ una situazione senza precedenti che un presidente non visiti prima un paese del centro o del nord America o un paese europeo. Come mai Trump concede questo onore all’Arabia Saudita? Suppongo che voglia ad un tempo riscattare la sua reputazione di essere contro l’Islam e galvanizzare un governo che è ostile a Teheran.

Come mai gli americani reputano che Riyad sia meno pericolosa di Teheran considerando il fatto che i sauditi hanno investito dei fondi enormi per diffondere la versione wahabita dell’Islam aumentando di conseguenza l’islamismo e il jihadismo?
Semplice. Teheran è semplicemente antagonista agli Stati Uniti mentre Riyad orchestra un complesso gioco di cooperazione con Washington a livello politico militare mentre, allo stesso tempo, sul piano educativo e religioso dipinge i cristiani e gli ebrei come i nemici.

Dal 1979 la Repubblica Islamica dell’Iran ha esportato l’estremismo e il terrorismo colpendo in modo particolare gli americani e gli ebrei. Attualmente sta combattendo in Libano, in Siria, in Iraq e in Yemen. Lei ritiene che il suo potere sia in aumento?
No. L’Iran sta beneficiando di almeno due decenni di leadership stabile, del Piano Congiunto di Azione Globale (JCPOA) e dei tumulti nei paesi di lingua araba. Ma tutto ciò potrebbe cambiare in fretta lasciando l’Iran in una posizione di debolezza molto maggiore.

La crisi siriana ha dato ai russi l’opportunità di riposizionarsi in Medioriente, tuttavia il presidente Trump ha dichiarato che Vladimir Putin è un potenziale partner. E’ d’accordo?
Non lo sono. L’obbiettivo principale della politica estera di Putin è quello di guadagnare potere e prestigio a spese degli Stati Uniti. Non può essere un partner.

Forze reazionarie e potenzialmente totalitarie come il governo della Cina, la Russia, l’Iran e il Venezuela sembra che stano guadagnando terreno a spese degli ordinmenti democratici. Come vede la situazione?
L’ordinamento liberale democratico ha raggiunto il suo apice con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e da allora è in costante declino. In parte la colpa è da attribuire a una carenza qualitativa di leadership occidentali, in parte a causa delle pessime scelte politiche praticate fuori dell’Occidente.

Durante la sua campagna elettorale Donald Trump ha usato lo slogan “America First”, prospettando una specie di ritiro jacksoniano dai problemi del mondo. Come presidente, tuttavia, ha abbandonato molte delle sue posizioni iniziali. Secondo lei il governo americano continuerà con le sue tradizionali posizioni post 1945?
Trump ha mutato opinione su numerosi impegni assunti in campagna elettorali. E’ una cosa facile da spiegare. Prima di diventare presidente aveva solo opinioni semplicistiche, e successivamente ha dovuto venire a patti con le complessità e le realtà del mondo. Fortunatamente non ha insistito nell’aderire alla sua ignoranza precedente ma si è reso disponibile ad assorbire del materiale nuovo. Quindi sì, penso che si baserà a qualcosa di molto simile a quelle che sono sempre state le politiche tradizionali americane dal ’45 in poi.

Nel suo articolo di gennaio, Una nuova strategia per la vittoria di Israele lei ha scritto, “Quando un numero sufficiente di palestinesi abbandoneranno il sogno di eliminare Israele, faranno le concessioni dovute per potere mettere fine al conflitto. Per terminare il conflitto Israele deve convincere il 50% e più dei palestinesi, che hanno perso”. Daniel Polisar del Jerusalem Shalem College ha messo in luce nel suo recente studio confrontando centinaia di sondaggi che la maggioranza dei palestinesi rifiutano uno Stato palestinese a fianco di Israele nella proporzione di 3 a 1. Come risponde a questi dati?
Polisar ha rilevato che il 25, 30 e 32% dei palestinesi sono disponibili a vivere a fianco di uno Stato ebraico. Questi numeri sono lievemente in eccesso rispetto alla mia stima del 20% dei palestinesi disposti ad accettare l’esistenza di Israele. Quindi (1) la sua stima è più ottimistica della mia e (2) c’è molto lavoro da fare per trasformare queste percentuali basse in una maggioranza.

Molti osservatori vedono in Trump un atteggiamento molto più favorevole nei confronti di Israele rispetto a quello del suo predecessore Obama. E’ così?
Trump sta imparando lungo la strada e non abbiamo idea dove lo porterà il suo apprendimento. Si possono supporre scenari in cui da un atteggiamento molto amichevole nei confronti di Israele potrebbe passare a un atteggiamento molto ostile con tutto quello che c’è in mezzo. Se devo fare una previsione, mi aspetto una moderata ostilità, perché gli egomaniaci tendono a sentirsi più gratificati quando visitano Riyad e il Dubai piuttosto di Gerusalemme e Tel Aviv.

La nuova Carta di Hamas afferma che tutta la Palestina appartiene all’Umma musulmana, ricordandoci il continuo rigetto arabo e islamico nei confronti di Israele. Se il conflitto arabo-israeliano consiste in una guerra religiosa fin dal principio, questo lo rende particolarmente difficile da risolvere, non crede?
Sì. Anche se nascosto in buona parte, la base religiosa del conflitto arabo-israeliano è sempre stata la chiave. Il fatto che storicamente gli ebrei non avessero potere rende la creazione di Israele più amara e sgradevole per gli arabi e i musulmani. Che i sionisti abbiano comprato la terra per costruire Israele invece di rubare la Palestina rende le cose ancora più umilianti.

Nella sua essenza l’Islam è un Sistema sia politico che teologico. Come possiamo aspettarci ragionevolmente che un sistema di questo tipo possa coniugarsi con i valori occidentali senza distruggere la propria logica intrinseca? In altre parole, il jihadismo è inevitabile?
No, non lo è. Tutte le religioni, in effetti tutte le creazioni umane, cambiano lungo il corso del tempo. Il cristianesimo e l’ebraismo alcuni secoli fa erano molto diversi rispetto alle loro manifestazioni attuali. L’Islam è cambiato in molto modi nell’ultimo mezzo secolo. Essendo questa la situazione, ci sono tutte le ragioni per pensare che l’Islam continuerà a cambiare. C’è da sperare che si modernizzi e che il jihadismo scompaia.

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