A seguito della decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme la capitale di Israele e, come conseguenza, di ricollocare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, L’informale ha chiesto ad alcuni tra i maggiori analisti del Medioriente e del conflitto arabo-israeliano la loro opinione sulla decisione del presidente americano e le sue implicazioni politiche nel mutante scenario regionale.
Secondo lei qual è la rilevanza politica della decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme la capitale di Israele e di spostare l’ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme?
Daniel Pipes: La mossa dell’ambasciata rinforza i legami americano-israeliani , i quali, a loro volta, faranno sì che i palestinesi e gli altri saranno più propensi a terminare le loro ostilità contro lo Stato ebraico.
Bat Ye’or: Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele è una vittoria della giustizia contro l’odio virulento che nega al popolo ebraico la sua storia e identità in modo da criminalizzarlo. Il riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con Gerusalemme, nella sua semplicità, è simile al riconoscimento dei campi dell’Olocausto da parte delle armate americane: è la constatazione di una realtà la quale espone per contrasto la perversione del suo venire in essere. Trump ha dato un colpo a questa Europa che è stata costruita nel 1973 sul vassallaggio dei petroldollari, nel trionfalismo di un antisionismo antisemita camuffato in “giusta battaglia della causa palestinese”, strumentalizzata da Eurabia, la politica euroaraba per perpetuare il conflitto fino alla distruzione di Israele rimpiazzato dalla Palestina. Arafat fu sia l’idolo dell’Europa che il suo giocattolo. Oggi è questa Europa, questa Eurabia, con la quale si confronta Trump.
Martin Sherman: Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele nonostante una non specificazione dei suoi confini territoriali, è senza dubbio un’iniziativa significativa e doverosa da molto tempo. Si spera che porterà a conclusione una situazione perversa e anomala, per la quale a Israele, come stato sovrano nazionale del popolo ebraico, viene negato il diritto di determinare la propria capitale, un diritto condiviso da qualsiasi altro stato sovrano sulla faccia del globo.
In questo senso, il presidente Trump deve essere applaudito per il suo coraggio morale e il suo rifiuto di arrendersi ai diktat della saggezza convenzionale e della correttezza politica nell’onorare il proprio impegno elettorale. La sua decisione corrisponde chiaramente alla volontà del popolo americano così come è riflessa nella decisione del Congresso del 1995 di dichiarare Gerusalemme la capitale dello Stato ebraico conferendo il mandato per lo spostamento dell’ambasciata nella città. Si spera che questo impedisca a qualsiasi futuro presidente di rescindere questo riconoscimento.
Tuttavia, il vero test del suo significato sostanziale, piuttosto che dichiarativo, sarà l’effettiva ricollocazione dell’ambasciata, ossia se il presidente Trump o il suo successore – in quanto la mossa impiegherà diversi anni – sarà sufficientemente determinato nel dare seguito a questa decisione. Di conseguenza, mentre nel breve termine la decisione è chiaramente molto benvenuta e rappresenta uno sviluppo positivo, è ancora prematuro giudicare il suo impatto nel lungo termine e il suo valore. Molto dipenderà, secondo me, dal comportamento di Israele e da quanto risoluto e robusto sarà, nei termini sia della sua sicurezza sia della sua strategia diplomatica, nel resistere e contrastare le pressioni da parte della comunità internazionale e l’intimidazione proveniente dal mondo islamico, dunque nell’assistere, promuovere e preservare la coraggiosa iniziativa storica di Trump. Una parola di cautela: se gli Stati Uniti o Israele verranno visti tornare sui propri passi, inclusa la ricollocazione dell’ambasciata, ciò costituirebbe una clamorosa vittoria per il potere di estorsione e intimidazione islamico, rendendo molto più difficile resistere a future richieste. Qualsiasi mossa del genere potrebbe trasformare una vittoria sionista potenzialmente grande in una pericolosa sconfitta.
Matthias Küntzel: La decisione di Trump non cambia ma riconosce la realtà, il che segna un importante cambiamento di atteggiamento. Fatah e Hamas devono sapere che stanno correndo contro un muro spesso fintanto che essi neghino o minimizzino il legame ebraico con Gerusalemme. Quindi, il rigetto da parte di Trump del wishful thinking è indubbiamente “un passo dovuto da molto tempo per fare avanzare il processo di pace”, per citare il presidente.
Yoram Ettinger: Nel caso in cui il presidente Trump proceda a ricollocare l’ambasciata Americana da Tel Aviv alla capitale di Israele, Gerusalemme, rinforzerà la posizione di deterrenza americana, attraverso un atteggiamento di audacia invece che di sottomissione alle pressioni e alle minacce arabe-islamiche.
Nel breve tempo la mossa appesantirà gli USA con un declino della loro popolarità in alcuni circoli, ma nel lungo termine incrementerà il rispetto verso di essi come alleato credibile da parte dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo, la Giordania e l’Egitto, oltre che da parte di altri stati filoamericani. Se l’ambasciata sarà ricollocata a Gerusalemme, verrà mandato un messaggio agli arabi che non possono basarsi sugli USA, come hanno fatto fino ad oggi, per massimizzare le loro domande di concessioni israeliane. Un simile sviluppo potrebbe avviare delle future negoziazioni per la pace su un terreno più realistico. La reazione araba alla ricollocazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme, se dovesse avvenire, metterà in luce le priorità nazionali arabe, portando gli arabi a concentrarsi sulle principali minacce per la sopravvivenza dei loro regimi, come gli ayatollah e altre forme di terrorismo islamico, mentre aderiranno di facciata alla questione palestinese.
Questa decisione avviene in un nuovo scenario Mediorientale dove i principali stati sunniti, in modo specifico l’Arabia Saudita, stanno convergendo verso Israele in nome della comune minaccia rappresentata dall’Iran. Ci può dire qualcosa in proposito?
Daniel Pipes: Parte dell’incentivo per un negoziato palestinese-israeliano è di facilitare la strada per una cooperazione saudita-israeliana contro l’Iran.
Bat Ye’or: Credo che i leader illuminati del mondo musulmano e molti dei suoi intellettuali desiderino uscire dall’eredità dell’odio fanatico lasciato loro dal Mufti di Gerusalemme e dal nazionalismo arabo creato come alleanza islamico-cristiana contro il sionismo. Questo movimento totalitario alleato con il nazismo ha combattuto tutte le identità nazionali non arabe e non islamiche. E’ stato questo movimento, favorito dai poteri occidentali dopo la prima guerra mondiale, che ha represso qualsiasi traccia di autonomia cristiana. Oggi vediamo il risultato. Il ventunesimo secolo si deve liberare dall’eredità genocida del ventesimo secolo: gli armeni, gli assiri, i caldei, i greci, i curdi in Iraq. Le voci della ragione e della comprensione arabe e musulmane sono state soppresse da omicidi come quello dell’emiro giordano Abdallah, pronto a riconoscere Israele. Credo che il mondo islamico sarà in grado di superare questa impasse e che la pace gli permetterà di sviluppare la propria economia e il benessere delle sue popolazioni.
Martin Sherman: Sono molto scettico relativamente ai sunniti. Ritengo che l’attitudine dei paesi sunniti nei confronti di Israele rifletta un equilibrio tra la loro paura dell’Iran da una parte e il loro disprezzo per lo Stato ebraico dall’altra. Al momento, il primo, la paura dell’Iran, è maggiore del secondo, il disprezzo per Israele. Tuttavia, una volta che questa diminuirà, il secondo, con ogni probabilità si riaffermerà, quasi sicuramente all’ennesima potenza.
Di conseguenza, malgrado l’evidente vantaggio tattico implicato in questo apparente mutamento nell’atteggiamento sunnita, sarebbe molto imprudente basare la pianificazione israeliana a lungo termine sulla supposizione che esso durerà, particolarmente, in opposizione alla posizione dei regimi. Nel mondo arabo c’è una pervasiva e ostinata inimicizia verso Israele da parte della popolazione in generale, compresi quei paesi con i quali Israele ha degli accordi di pace, come l’Egitto e la Giordania. Chiaramente, questo limita il grado e la profondità di qualsiasi potenziale legame tra Israele e il mondo sunnita, che, dovrebbe essere ricordato, ha dato vita alle ideologie salafite-wahabite, ai talebani, ad al-Qaeda e all’ISIS. In ogni caso non dovrebbe in alcun modo fornire a Israele qualsivoglia incentivo nel fare concessioni di vasta portata, cariche di rischi e largamente irrevocabili sulla questione palestinese.
Se gli stati sunniti richiedono l’aiuto israeliano nel confrontare la minaccia dall’Iran sciita, non gli può essere permesso di condizionare la loro accettazione di questo aiuto – il perseguimento dei loro interessi di sicurezza – sulla base delle concessioni israeliane, specialmente se tali concessioni dovessero chiaramente minare la sicurezza di Israele e dunque la possibilità di Israele nell’assicurare la sicurezza sunnita. Ci sarebbero poche cose più assurde di questa.
Mathias Küntzel: C’è un certo rischio che l’incipiente cooperazione di alcuni stati sunniti con Israele possa essere danneggiata a causa della decisione di Trump. Tuttavia, penso che questo rischio sia basso. Mi sembra che sia stato necessario accettarlo.
Yoram Ettinger: La cooperazione contro-terroristica e di intelligence tra Israele e l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania e altri regimi filoamericani è dovuta alle chiare e letali minacce presenti da parte del terrorismo sunnita e sciita per ognuno di questi regimi. Mentre l’Arabia Saudita e gli altri stati filoamericani del golfo non si sono riconciliati con l’esistenza di uno stato “infedele” ebraico nella Casa dell’Islam, il quale è stato divinamente destinato solo ai “credenti”, hanno compreso che lo stato Ebraico costituisce per loro la più efficace polizza sulla vita in Medioriente.
C’è una convinzione diffusa che il conflitto arabo-israeliano o palestinese-israeliano non sia più nelle priorità del mondo arabo, specialmente per l’Arabia Saudita. Le ultime indiscrezioni dicono che il principe Mohamed bin Salman, l’erede al trono saudita, abbia detto al presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, che sarebbe meglio per lui appoggiare il nuovo piano di pace americano del quale non conosciamo ancora i dettagli. Qual è la sua opinione in merito?
Daniel Pipes: Sì, Mohammed bin Salman sembra felice di migliorare le relazioni con Israele; questo è il risvolto positivo dell’orrendo accordo con l’Iran fatto da Obama. Queste relazioni sono ostacolate dai palestinesi, così sta spingendo per un accordo.
Bat Ye’or: Credo che Trump sia un politico saggio, abbia dovuto coprirsi le spalle. Ha girato il Medioriente e si è consultato con i suoi leader. Bisogna comprendere che la questione palestinese è stata fabbricata tra il 1967 e il 1973, perché, se ci fosse stato un popolo palestinese, si sarebbe manifestato e avrebbe rivendicato la propria autonomia nella Palestina ottomana e nella Palestina del 1948-67. I palestinesi sono il braccio della jihad islamica dell’Umma e dell’antisemitismo europeo. Detto questo, credo che Israele non debba tenere dei territori che sono popolati a maggioranza da una popolazione ostile che ha il diritto di vivere secondo i propri costumi e la propria cultura. Credo che una federazione palestinese con la Giordania, che rappresenta il 70% della Palestina storica, sarebbe benefico. Il nome stesso Palestina, che venne dato da un imperatore romano alla Giudea nel 135, non ha nulla a che vedere con il mondo arabo e islamico e potrebbe venire abbandonato. I suoi confini non esistevano fino al Mandato Britannico, e la sua topografia venne esumata dai cartografi occidentali, grazie alla Bibbia. Dalla sua arabizzazione-islamizzazione, la Palestina non è stata altro che una regione in rovina e abbandonata, come lo fu Atene durante i periodi di dominio turco. Il riconoscimento di Trump rompe con la politica di Eurabia e apre una nuova strada per la pace. Spero che il mondo arabo sappia riconoscere i suoi veri amici da quelli falsi e sia capace di gestire la cosa. Quando il denaro smetterà di nutrire la rete unificata del jihadismo e dell’antisemitismo europeo, sarà stato fatto un grande progresso.
Martin Sherman: La “questione palestinese” non è mai stata realmente una priorità per il mondo arabo ma è stata solo un modo per minare la legittimità di Israele come stato-nazione del popolo ebraico. Non ho nessuna informazione autorevole sul “nuovo piano di pace americano” ma se ha a che vedere con significative concessioni territoriali israeliane, è Israele e non Abbas a doverlo respingere. Allo stesso modo se comporta la costruzione di una Gaza allargata sul Sinai. Dovrebbe essere respinto. Dopotutto, se una piccola Gaza ha creato enormi problemi di sicurezza e di stabilità, come può la creazione di una grande Gaza essere considerata una misura costruttiva che possa portare a una soluzione stabile e sicura?
Il problema non è quello di allocare un appezzamento vacante di terreno sul quale collocare gli arabi-palestinesi, ma lottare con il persistente rifiuto arabo-musulmano di Israele, non per quello che fa ma per quello che è, uno stato ebraico. Sarebbe pericolosamente ingenuo credere che qualsiasi entità palestinese autogovernata, che sia in Giudea e Samaria o altrove, non diventerebbe rapidamente una piattaforma dalla quale lanciare attacchi contro Israele. Per l’unico approccio non coercitivo, o perlomeno non “cinetico” che possa assicurare una sopravvivenza di Israele come stato-nazione degli ebrei rimando al mio “Ripensare la Palestina: Il Paradigma Umanitario”.
Matthias Küntzel Questo accordo rimane centrale per il regime iraniano e i suoi alleati palestinesi e per l’Unione Europea. L’Unione Europea insiste con il wisfhful thinking e tende a mettere se stessa più dalla parte dell’Iran che dalla parte degli Stati Uniti, non solo in rapporto con l’accordo nucleare con l’Iran e la questione dei test balistici iraniani ma anche in rapporto alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme. L’Europa, al momento, sta in marciando in una direzione che divide l’Occidente, questo è quello che mi preoccupa.
Yoram Ettinger: Lo tsunami arabo che si è manifestato alla fine del 2010 e sta ancora proseguendo nel Medioriente ha enfatizzato la realtà delle priorità arabe. Nessuna delle eruzioni tettoniche degli ultimi sette anni è stata direttamente o indirettamente connessa con la questione palestinese. Nessuno dei regimi arabi che sono stati rovesciati ha perso potere relativamente al suo comportamento nei confronti della questione palestinese. Infatti, ognuno di questi regimi ha espresso la propria alleanza alla causa palestinese in molte occasioni. Hanno rovesciato sui palestinesi molte parole ma hanno mostrato pochi fatti.
I sauditi, come tutti i regimi arabi, sono consapevoli che i palestinesi abbiano giocato un ruolo destabilizzante nel Medioriente dai tempi del coinvolgimento di Mahmoud Abbas e Arafat nella sovversione e nel terrorismo, in Egitto negli anni ’50, in Siria negli anni ’60, in Giordania dal 1968 al 1970, in Libano dal 1971 al 1982 e in Kuwait nel 1990, e dunque non hanno mostrato i muscoli, se non a parole, per conto dei palestinesi.
Detto questo, gli arabi aggireranno sempre gli USA in senso massimalista, dovessero gli USA presentare un altro “piano per la pace”. Gli arabi vogliono essere percepiti come più patriottici degli USA quando si arriva alla questione palestinese. L’Arabia Saudita e altri paesi filoarabi sperano che gli USA si astengano dal sottoporre un altro “piano di pace” e si focalizzino sul machete degli ayatollah che è letteralmente alla loro gola.