In merito a quanto sta accadendo in queste ore in Iran, le proteste di piazza contro il regime, Daniel Pipes, durante una recente intervista all’Informale, anticipò, “In qualsiasi giorno del futuro ci sarà una panetteria senza pane o un distributore senza benzina. Il risultato potrebbe essere un tumulto che si diffonderà attraverso il paese e che finirà per rovesciare il governo”.
Nel 2009 quando la popolazione scese in piazza in modo più massiccio, Barack Obama preferì girarsi dall’altra parte in nome di una politica di non ingerenza che andava di pari passo con la sua filosofia di appeasement nei confronti della Repubblica Islamica. Il risultato di questa scelta sarebbe stato l’accordo sul nucleare siglato nel 2015.
Al di là di una proiezione di sé aggressiva e imperiale in Medioriente, il regime teocratico iraniano andato al potere nel 1979 deve necessariamente fare i conti con le molte crepe presenti al proprio interno, fessure che potrebbero progressivamente allargarsi e riportate in piazza ancora più persone di quelle attuali nel contesto di una cornice mediorientale in mutamento.
I mutamenti recenti più rilevanti riguardano la dichiarazione USA relativa a Gerusalemme capitale di Israele e la convergenza sunnita nei confronti di quest ultimo relativa alla comune valutazione dell’Iran quale maggiore minaccia regionale.
L’avere rimesso l’Iran da parte americana al centro della scena come il principale stato musulmano sponsor del terrorismo insieme al non possumus di Donald Trump relativo alla certificazione dell’accordo sul nucleare, ha di fatto ricollocato la Repubblica Islamica su quell’asse del male dalla quale la politica conciliatoria dell’Amministrazione Obama l’aveva sottratta.
Questi fattori, assommati tra di loro, hanno come conseguenza di indebolire internamente il consenso di cui gode il regime, colpendo al cuore quella legittimazione a livello internazionale che Barack Obama gli aveva conferito, di fatto rafforzando la sua presa. Nel suo primo discorso pronunciato a settembre all’ONU, Donald Trump fu esplicito al riguardo:
“Il governo iraniano nasconde una dittatura corrotta dietro la falsa apparenza di una democrazia. Ha trasformato un paese prospero, con una ricca storia e cultura, in uno stato canaglia economicamente impoverito le cui principali esportazioni sono la violenza, lo spargimento di sangue e il caos. Le vittime di più lunga durata della dirigenza iraniana sono la sua gente. Invece di usare le proprie risorse per migliorare lo stile di vita delle persone, i profitti del petrolio vengono utilizzati per finanziare Hezbollah e altri terroristi che uccidono musulmani innocenti e attaccano i loro pacifici vicini arabi e israeliani“.
Non solo, nel dichiarare che “I regimi oppressivi non possono durare per sempre”, il presidente americano fece un esplicito riferimento al popolo iraniano e al giorno in cui “dovranno affrontare una scelta”. La scelta è, ovviamente, quella di agire per mettere fine alla parentesi teocratica che imprigiona il paese da quasi quaranta anni, consentendo al popolo di recuperare la propria autonomia e libertà.
Ci troviamo dunque davanti alla proiezione di uno scenario opposto rispetto a quello disegnato dall’Amministrazione USA precedente. Mentre l’Europa è a maggioranza a sostegno dell’attuale assetto politico iraniano per evidenti interessi di carattere economico, continuando a magnificare la bontà dell’accordo sul nucleare voluto da Obama, gli USA marciano in una direzione opposta spingendo oggettivamente in funzione di quelle forze democratiche, ancora deboli, che potrebbero, in prospettiva, scardinare definitivamente l’assetto del regime.