Pubblichiamo un articolo a firma di Daniel Pipes scritto dall’autore il 2 ottobre 1998 che risulta oggi di presciente attualità.
Il 24 settembre 1998, a soli due giorni dal decimo anniversario della pubblicazione de I versi satanici di Salman Rushdie, il ministro degli Esteri iraniano Kamal Kharrazi ha fatto una dichiarazione importante alla presenza del suo omologo britannico, dicendo: “Il governo della Repubblica islamica dell’Iran non ha alcuna intenzione di prendere qualsiasi misura né di minacciare la vita dell’autore de I versi satanici o di qualsiasi altra persona legata al suo lavoro, e di non voler incoraggiare o aiutare chiunque a farlo. Di conseguenza, il governo si dissocia da ogni ricompensa offerta a questo riguardo e non finanzia nessuna iniziativa in tal senso”.
Molti commenti su questo episodio sono stati pressoché entusiastici. Ad esempio, la Radio Pubblica Nazionale ha concluso che “le minacce di morte sono ora ufficialmente revocate. (…) Rushdie sta per riprendersi la sua vita”. Lo stesso Rushdie non avrebbe potuto essere più euforico: “Sembra che sia finita. Significa tutto, significa libertà. È stato raggiunto un risultato straordinario”. Lo scrittore ha ammesso che potrebbero esserci ancora uno o due “sedicenti estremisti” in Inghilterra, ma ha affermato che non avevano importanza.
Al primo impatto, la dichiarazione di Kharrazi sembra segnare un sostanziale passo indietro rispetto all’editto di morte emesso dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini contro Rushdie nel febbraio 1989. Ma come ogni documento accuratamente elaborato, l’osservazione di Kharrazi deve essere letta con attenzione: più viene analizzata in dettaglio, meno cambiamenti rappresenta.
Ma cosa dice la dichiarazione di Kharrazi? La dichiarazione consta di tre parti:
Teheran non tenterà di uccidere Rushdie o altri collegati a I versi satanici. Questo non apre nuovi orizzonti. Da anni Teheran dice al Regno Unito e ad altri Paesi europei che, sebbene l’editto non possa essere formalmente revocato, non ha alcuna intenzione di rendere operativa la sentenza. Già nel giugno 1989, pochi giorni dopo la morte di Khomeini, un portavoce non ufficiale iraniano a Londra, Kalim Saddiqui, annunciò che mentre la minaccia di morte non sarebbe stata formalmente revocata, Teheran “è pronta a lasciar cadere la questione”. Gli iraniani hanno più volte ripetuto questa formulazione. In quella che probabilmente è la più forte dichiarazione di questo tipo, Ali Ahani, direttore generale per l’Europa occidentale presso il ministero degli Esteri di Teheran, ha affermato nel dicembre 1997 che l’editto Rushdie “è una questione puramente religiosa, con la quale il governo iraniano non ha nulla a che fare”. Questo messaggio è stato chiaramente ascoltato in Occidente. Quando è stato chiesto nell’aprile 1997 al ministro degli Esteri tedesco Klaus Kinkel quali benefici ha ottenuto il dialogo critico dell’Europa con l’Iran, Kinkel ha indicato come un risultato “la promessa verbale che l’Iran non invierà alcun commando killer contro lo scrittore Salman Rushdie”.
Teheran non incoraggerà altri a uccidere Rushdie. In passato, i funzionari iraniani hanno chiarito solo occasionalmente questo punto, ma lo hanno fatto. Nel maggio 1997, l’ambasciatore iraniano in Ungheria ha affermato chiaramente che “i leader iraniani non hanno mai detto o suggerito che qualcuno dovrebbe uccidere questa persona”, riferendosi a Rushdie.
Teheran si dissocia dal fatto di essere a conoscenza dei 2,5 milioni di dollari proposti dalla Fondazione 15 Khordad per l’esecuzione dell’omicidio di Rushdie. Teheran aveva già chiarito questo punto. Ad esempio, nel febbraio 1997, l’allora presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani ha dichiarato: “Questa fondazione è un’istituzione non governativa e le sue decisioni non sono legate alle politiche del governo”.
Cosa non dice il documento. Non meno importante è quello che non dice la dichiarazione di Kharrazi. La cosa più rilevante è che il ministro degli Esteri iraniano non ha riprovato l’editto né in qualche modo lo ha limitato, e non ha messo in discussione l’editto né ne ha contestato la validità come base della politica del governo. In effetti, c’è un accordo quasi unanime tra l’élite iraniana che il decreto contro Rushdie è:
Una sentenza permanente. L’Islam sciita duodecimano, il tipo praticato in Iran, distingue tra due tipi di enunciazioni religiose, la fatwa e l’hukm, con la prima che rimane valida solo durante la vita dell’autorità religiosa che la pronuncia e il secondo che continua a essere valido oltre la morte dell’autorità sapienziale che l’emette. Negli ultimi dieci anni, i portavoce iraniani hanno ritenuto all’unanimità la sentenza su Salman Rushdie un hukm. Pertanto, l’Ayatollah Abdallah Javadi-Amoli ha dichiarato nel febbraio 1997: “Questa non è una fatwa che si è estinta con la morte del leader religioso che l’ha emessa. (…) È un hukm permanente e resterà in vigore fino a quando non sarà eseguito”. I media iraniani hanno ribadito questo punto, a volte citando espressamente la distinzione tra hukm e fatwa. La radio di Teheran ha affermato nel luglio 1998, ad esempio, che “ciò che l’imam [cioè Khomeini] ha emesso contro Rushdie era un hukm, una sentenza esplicita di natura irrevocabile che ha una portata più ampia di una fatwa”.
Al di là della competenza del governo ad apportare modifiche. Mahmud Du’a’i, vicepresidente della commissione per gli Affari Esteri del Parlamento iraniano, ha definito la condanna a morte di Rushdie “un decreto religioso immutabile”. Il portavoce del ministero degli Esteri ha concordato: “Una fatwa emessa da un supremo giurista religioso è irrevocabile”. E l’Ayatollah Ahman Jannati, a capo di diversi potenti organi di governo, ha dichiarato: “La questione [di Salman Rushdie] è stata definitivamente decisa dall’imam e nessuno ha l’autorità di revocare la fatwa dell’imam”.
Politica governativa. Ad un certo punto nel 1997, il principale negoziatore dell’Iran con Londra, Muhammad Javad Larijani, ha cercato di dissociare il regime dall’editto di Khomeini citando lo stesso Khomeini: “Ho espresso le mie opinioni come seminarista e il governo dovrebbe seguire la propria strada sulla base dei propri calcoli”. In risposta, il primo ministro al momento dell’emanazione dell’editto nel 1989, Mir-Hoseyn Musavi, ha replicato con veemenza: “Non solo l’imam non ha detto una cosa del genere al governo, ma mi ha inviato un messaggio invitando anche il governo ad adottare una posizione su questo tema (…) lo stesso giorno in cui è stato emesso l’editto dell’imam”. Musavi ha continuato a dire come avesse eseguito gli ordini di Khomeini e segnalato al suo governo di “attuare qualsiasi azione appropriata” contro Rushdie.
Conclusioni: la dichiarazione di Kharrazi si limita a riaffermare una posizione iraniana ormai logora e che in nessun modo apre nuovi orizzonti. Perché allora la dichiarazione di Kharrazi ha ottenuto un’accoglienza così importante? L’Associated Press ha colto nel segno: “Kharrazi e [il ministro degli Esteri britannico Robin] Cook hanno cercato di presentare la mossa come qualcosa di nuovo e significativo, come un modo per migliorare i legami che sono rimasti tesi sulla questione”. E perché una tale spinta a migliorare i legami? Difficilmente si può fornire una risposta migliore che citare quanto affermato dallo stesso Salman Rushdie nel 1997: “Quando è il formaggio feta danese o il manzo irlandese halal a interferire con la Convenzione europea dei diritti umani, è difficile che sia la libertà d’espressione a prevalere”. Il richiamo del mercato iraniano, per quanto piccolo, è forte.
Infine, un invito alla prudenza rivolto a Salman Rushdie. Farebbe bene a moderare il suo entusiasmo in merito a quest’ultima dichiarazione iraniana. Per più di nove anni gli iraniani hanno promesso che l’editto di Khomeini non sarebbe stato rispettato, eppure lo stesso Rushdie ha rivelato nel 1997 che il Foreign Office britannico lo aveva informato più volte di “tentativi reali” di attentare alla sua vita. E gli agenti del governo iraniano sono solo una potenziale fonte di assassini; un’altra è costituita dai devoti accoliti dell’Ayatollah Khomeini. Molti musulmani fondamentalisti tengono il defunto leader iraniano in grande considerazione e non consentono ai semplici burocrati di vanificare la sua sentenza. Per loro, la condanna a morte rimane un’eredità irrevocabile di Khomeini, ben oltre il controllo degli apparatchik di Teheran.
Traduzione di Angelita La Spada