Ancora non era l’alba, quello shabat del 16 ottobre del 1943, quando i tedeschi cominciarono il rastrellamento degli ebrei romani.
Ne presero 1024, tra cui 200 bambini. Due giorni dopo furono deportati ad Auschwitz. Fecero ritorno in 15. Una sola donna, Settimia Spizzichino. Nessun bambino.
Ma dai tedeschi fu considerato un fallimento: come ricorda la Arendt, filosofo, ebrea tedesca, ne La banalità del Male “Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire” (emblematica la figura di Ferdinando Natoni, alto grado della milizia fascista, Giusto fra le Nazioni). Altri si salvarono perché il grosso delle truppe impiegate (circa 300 uomini) erano riservisti dell’esercito tedesco (la polizia italiana non fu considerata “affidabile”), non molto motivati per cose del genere tanto da essere accusati di “superficialità” per come avevano condotto l’operazione. Pochi erano gli specialisti appositamente inviati, un eisatzkommando di una decina di uomini comandati dal famigerato Theodor Danneker.
Ma un fallimento fu considerata dai tedeschi l’intera azione per la “soluzione” del problema ebraico in Italia.
Da ciò alcune riflessioni sull’Italia e l’Olocausto.
In Italia, ove gli ebrei erano assimiliati, la politica razziale intrapresa da Mussolini dal ’38 era ritenuta estranea alla storia alla sensibilità ed alla stessa coscienza della nazione. Ed estranea allo stesso fascismo, di cui contraddiceva le fondamenta costruite sull’idea gentiliana dello Stato Etico. Uno stato che ora discriminava i suoi stessi cittadini.
Comunque sia, quando si trattò di passare dalle discriminazioni alle persecuzioni, richieste con insistenza dall’alleato germanico, vi fu un sostanziale generalizzato rifiuto: una cosa sono le leggi razziali altro è il concorso in un genocidio.
Illuminanti anche in questo caso le pagine della Arendt: “Prima del colpo di Stato di Badoglio dell’estate del 1943, e prima che i tedeschi occupassero Roma e l’Italia settentrionale, Eichmann e i suoi uomini non avevano mai potuto lavorare in questo paese. Tuttavia avevano potuto vedere in che modo gli italiano non risolvevano nulla nelle zone della Francia, della Grecia e della Jugoslavia da loro occupate: e infatti gli ebrei perseguitati continuavano a rifugiarsi in queste zone, dove potevano esser certi di trovare asilo, almeno temporaneo. A livelli molto più alti di quelli di Eichmann il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti….”
E queste non erano semplici opinioni, ma ciò che era risultato dal processo Eichmann, che Hanna Arendt aveva seguito per il giornale New Yorker e poi trasfuso nel suo memorabile “La banalità del male”.
Tale riconoscimento all’Italia, del resto, è sancito dallo stesso Stato d’Israele: nello Yad Vashem di Gerusalemme, il memoriale di Stato sull’olocausto, a proposito dell’Italia si legge: “”Il salvataggio degli ebrei in Italia: Nel 1938 l’Italia fascista, divenuta razzista, varò leggi antisemite che colpirono gravemente gli ebrei in tutti i settori della vita. Tuttavia, dal 1941 al 1943, nei territori sotto il controllo italiano in Jugoslavia, Grecia e Francia, membri dell’esercito italiano e del Ministero degli Esteri adottarono misure per salvare la vita degli ebrei per motivi politici e umanitari. In Italia stessa, il governo non permise la deportazione degli ebrei fino al settembre 1943”.
Ma anche successivamente la politica del governo italiano del nord fu quella di evitare la deportazione in Germania con il conseguente sterminio degli ebrei residenti e rifugiatisi nella parte d’Italia occupata dai Tedeschi.
A tal proposito ancora la Arendt: “I tedeschi, come sempre facevano quando incontravano resistenza –(da parte dei governi alleati)-, cedettero e ora accettarono che gli ebrei, anche se non appartenevano a categorie “esentate”, venissero non deportati, ma soltanto internati in campi italiani. Per l’Italia, questa soluzione poteva essere considerata sufficientemente “finale”. Così trentacinquemila ebrei furono catturati nell’Italia settentrionale e sistemati in campi di concentramento nei pressi del confine austriaco. Nella primavera del 1944, quando ormai l’Armata Rossa aveva occupato la Romania e gli Alleati stavano per entrare in Roma, i tedeschi violarono la promessa e cominciarono a trasportarli ad Auschwitz: ne portarono via circa settemilacinquecento, di cui poi ne tornarono appena seicento. Tuttavia gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che allora vivevano in Italia.” Cifra che, se a noi sembra comunque orrenda, per quel che successe nel resto dell’Europa occupata dai Tedeschi viene considerata dagli stessi ebrei molto contenuta.
In definitiva la storia della Shoah, così come riconosciuto anche dal popolo d’Israele, ci insegna che l’Italia non si è macchiata del sangue degli ebrei ed è uscita a testa alta da questo orrore. E, per quanto vogliamo denigrarci da noi stessi, questo fatto deve essere motivo di sicuro orgoglio per la nostra patria e da tramandarsi, insieme alla memoria della Shoah, alle future generazioni.