L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, annunciata ieri sera a Washington da Donald Trump, non solo mette fine a un accordo che Trump candidato alle presidenziali, e successivamente Trump presidente degli Stati Uniti, considerava il peggiore mai fatto dagli Stati Uniti ma, simbolicamente, mette definitivamente fine all’era Obama e al suo lascito politico internazionale.
Il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), pervicacemente voluto dall’ex inquilino della Casa Bianca e pubblicizzato serratamente come un accordo epocale e l’unica alternativa alla guerra, (mentre Benjamin Netanyahu con pragmatico buonsenso, ha sempre sostenuto che l’alternativa fosse un accordo migliore), rappresentava il trofeo maggiore della presidenza Obama, il suo folgorante accomplishment in politica estera.
Con la rescissione dell’accordo da parte di Trump si manifesta plasticamente il radicale sovvertimento di uno dei perni ideologici della dottrina Obama, il venire a patti con i nemici, corollario di quell’idea di soft power americano che tanto piaceva a una Europa arrendevole e post-identitaria. La scommessa utopica dell’ex presidente americano era che un regime islamico militarmente aggressivo e omicida nelle sue intenzioni, specialmente nei confronti dello Stato ebraico, con il tempo si sarebbe convertito al pragmatismo. In questa prospettiva, alla fine dell’accordo, quando l’Iran avrebbe potuto riprendere il suo programma atomico senza più alcuna restrizione, le testate nucleari sarebbero state usate come serena tutela per la propria sicurezza.
A questa ipotesi inverificabile ma profondamente implausibile, Israele non ha mai creduto neanche un secondo. Ma Benjamin Netanyahu, per quanti sforzi abbia fatto negli ultimi anni per cercare di convincere il mondo della assoluta pericolosità di un regime che ha fatto dell’esportazione della rivoluzione islamica sciita del 1979, coniugata con l’aggressione, il terrorismo, un virulento antiamericanismo e antisemitismo, la propria ragione d’essere, si è sempre dovuto arrendere all’evidenza che quello che diceva trovava pochi ascoltatori.
Certo non li trovava in una Europa progressivamente lontana dalle ragioni di Israele da almeno quaranta anni, una Europa che, per motivi esclusivamente economici, ha salutato l’accordo come un capolavoro diplomatico che andava salvaguardato ad ogni costo, così come non poteva trovarli in una Casa Bianca il cui scopo era quello di disimpegnarsi sempre più dal Medioriente arrivando ad applaudire regimi integralisti come quello di Morsi in Egitto, e legittimando l’Iran come partner politico affidabile.
Ci è voluto un presidente americano sempre più attento alla realtà, con una idea di America declinata in senso forte e determinato sul piano politico e negoziale, perché finalmente le preoccupazioni di Israele venissero finalmente accolte in quanto assolutamente fondate, basate su i fatti, su un accordo pieno di incognite e troppo sbilanciato per potere essere accettato. Non che Donald Trump avesse bisogno di Netanyahu per convincersi. Era già convinto in campagna elettorale che l’accordo fosse da cassare, il premier israeliano ha solo offerto alla sua persuasione una sponda granitica, stabile. Tuttavia, Trump ha dovuto traccheggiare, convinto dal precedente Segretario di Stato, Rex Tillerson, dall’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, MacMaster e dal Segretario alla Difesa, Mattis, che non fosse opportuno affossarlo.
La recente sostituzione di Tillerson e McMaster con Mike Pompeo e John R. Bolton, massimi tra gli oppositori dell’accordo, era già un segnale chiaro su quale sarebbe stata la decisione che il presidente degli Stati Uniti avrebbe preso. Mancava solo il coronamento, fornito da Israele con il trafugamento dall’Iran dell’intero archivio sul programma atomico. A quel punto il dado era tratto.
L’uscita americana dall’accordo sul nucleare iraniano implica il ritorno massiccio delle sanzioni precedenti le quali diventeranno effettive nell’arco di tre mesi, come implica che qualsiasi paese voglia continuare a fare affari con l’Iran, ne sarà oggetto.
In questo senso fanno sorridere le dichiarazioni della più irriducibile sostenitrice dell’accordo, Federica Mogherini, la quale ha annunciato che la UE lo preserverà comunque. Ma si comprende. Non è facile per l’Europa venire a patti con la realtà, con quei hard facts che Israele è abituato a gestire quotidianamente e che sono al centro dell’attenzione dell’Amministrazione Trump.