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Presa ferma sulla realtà: Intervista a Martin Sherman

Pochi, come Martin Sherman, possiedono una conoscenza così approfondita del conflitto arabo-israeliano o israelo-palestinese (così riqualificato dopo la guerra dei Sei Giorni ). Fondatore e presidente dell’Istituto Israeliano per gli Studi Strategici, ex segretario generale del movimento politico Tsomet e autore di “Into the Fray” una tra le migliori rubriche di analisi politica sul Medio Oriente e Israele, Sherman è un empirista risoluto con una presa ben ferma sulla realtà.

Come spesso capita a coloro che vedono bene ma non sono abbastanza ascoltati, già nel 1992 aveva previsto con estrema precisione cosa sarebbe accaduto a Gaza se Israele avesse lasciato la Striscia, così come vide con esattezza nella duplicità di Gonan Segev, l’uomo il cui tradimento politico fece da levatrice ai perniciosi accordi di Oslo.

A distanza di un anno, L’informale lo ha incontrato di nuovo in Israele.

Martin Sherman, è noto a chi ha famigliarità con la sua linea di pensiero, che per lei l’unica soluzione praticabile al conflitto arabo-israeliano sia quello che lei chiama “il paradigma umanitario”, il quale comporta la fine della soluzione dei due stati. Potrebbe illustrare brevemente su cosa si sostanzia?

E’ mia opinione che il paradigma umanitario il quale spinge per l’immigrazione incentivata dei residenti arabi della Giudea e Samaria ed eventualmente di Gaza, è fondamentalmente l’unico paradigma non violento il quale possa garantire l’esistenza di Israele come stato nazione del popolo ebraico. Perché Israele possa perseverare come nazione del popolo ebraico deve affrontare due imperativi, quello geografico e quello demografico. Se non affronta con successo questi due imperativi, diventerà ingestibile geograficamente o demograficamente o entrambe le cose. Nell’affrontare questi due imperativi Israele deve gestire due sfide mortali. Una è la soluzione dei due stati, la quale non affronta in alcun modo efficace la sfida geografica, e l’altra è quella demografica. E’ molto facile mostrare che se Israele dovesse cedere abbastanza territorio per una entità palestinese appena sostenibile, non sarebbe in grado di difendere i propri confini, i confini del 1967 ai quali Abba Eban si riferiva correttamente come i confini di Auschwitz. La soluzione dei due stati renderebbe semplicemente Israele ingestibile geograficamente nei confronti di qualsiasi forza ostile che dalle colline si affaccerebbe sulla piana costiera, il che significa che essa sarebbe in grado di interferire a proprio piacimento sulla sua routine socio-economica. Prenda in considerazione quello che è accaduto a Gaza recentemente con i palloni e gli aquiloni incendiari, e immagini questo tipo di situazione in relazione all’area densamente popolata della costa, Tel Aviv, Haifa, ecc.

Ma anche l’imperativo geografico è destinato al fallimento in quanto non sarebbe in grado di creare una struttura coesa e coerente. La società israeliana degenererebbe in uno scenario libanese che sarebbe lacerato da conflitti etnici. E’ praticamente impossibile immaginare come si possa gestire un paese dove il 40% della popolazione non solo non accetta la natura ebraica del paese, ma la rigetta violentemente. Dunque, se si è d’accordo sul fatto che Israele debba essere gestibile geograficamente e demograficamente, questo scenario ridurrebbe drasticamente la natura ebraica del paese insieme a una progressiva riduzione dell’immigrazione ebraica. Questo stato di cose porterebbe eventualmente a una leggera predominanza ebraica la quale verrebbe erosa progressivamente e rimpiazzata da una maggioranza musulmana e questo comporterebbe la fine dello Stato ebraico in quanto tale. L’unica modo di affrontare con questi due imperativi è quello di mantenere il territorio e ridurre la presenza araba. Ciò significa indurre il suo trasferimento attraverso incentivi positivi per andarsene e negativi per restare. Ritengo che Israele debba mettere sul tavolo delle rilocazioni molto generose le quali possano indurre gli arabi non belligeranti a progettare un futuro più prospero per loro in paesi terzi. Gli incentivi negativi sarebbero la riduzione da parte di Israele dei servizi diretti come l’acqua, l’elettricità, il gas nei confronti della popolazione nemica in modo da creare la pressione necessaria per costringerla ad andarsene accettando una rilocazione generosa. La soluzione dei due stati chiama in essere un’altra entità  musulmana misogina e omofobica la quale diventerebbe un bastione per il terrorismo jihadista. Quello che prospetto è l’opportunità per i palestinesi non belligeranti di liberarsi dalla presa di quelle cricche che per decenni gli hanno soggiogati, in modo da trovare una vita più sicura e prospera altrove. Se si dovessero paragonare i meriti morali di questi due paradigmi, credo che la scelta si imporrebbe da sola. Per quale motivo chiunque, in modo particolare un liberale, preferirebbe il venire in essere di una entità islamica tirannica e intollerante invece di offrire l’opportunità ai palestinesi non belligeranti di farsi una vita migliore altrove? Non c’è veramente molto da scegliere qui.

Secondo il professor Efraim Karash, il processo di pace di Oslo “ha portato alla creazione di una entità terroristica inestirpabile alle porte di Israele, ha approfondito lo sfaldamento interno di Israele, destabilizzato il suo sistema politico e indebolito la sua posizione a livello internazionale”. E’ d’accordo?

La risposta breve è, sì, completamente. La cosa tragica non è solo che la situazione descritta da Karsh è corretta ma che fosse del tutto prevedibile. Il processo di Oslo è stato un fallimento previsto. Chiunque possedesse una conoscenza minima di elementi base di scienza politica o di discipline connesse come relazioni internazionali o teoria dello stato nazione, sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare. Negli anni Novanta si poteva finire in carcere per sostenere una soluzione politica sulla linea di Oslo, era considerato tradimento. Quello che sono stati capaci di fare non è stato di fare propria una posizione che non solo era marginalizzata ma era anche illegale e trasformarla nel principale paradigma politico non solo a livello internazionale ma anche qui in Israele. Dunque non posso che essere d’accordo con Karsh nel giudicare Oslo un disastro. Posso solo sperare che si sbagli quando dice che è un disastro inestirpabile, in altre parole, irrevocabile. Spero che attraverso la volontà politica e sufficienti risorse a disposizione sia possibile cambiare la situazione e questo è il motivo per il quale promuovo il paradigma umanitario. A  questo proposito, quando ne ho parlato prima non ho menzionato due fattori che vorrei evidenziare.

Prego.

Uno è la necessità di una pressione politica nei confronti delle nazioni arabe per fermare l’opposizione alla diaspora palestinese nei paesi arabi. Come è noto, la Lega Araba si rifiuta di permettere ai palestinesi di acquisire la cittadinanza nei loro paesi di residenza nel mondo arabo. Una volta, il portavoce della Lega dichiarò, “Se dovessimo concedergli la cittadinanza non avrebbero alcuna ragione di andare in Palestina”. Questo è il punto. Il secondo è la dissoluzione dell’UNRWA. Nel 2008 feci una presentazione alla Knesset durante la quale suggerì fermamente che Israele si impegnasse per la dissoluzione dell’UNRWA in quanto il suo scopo è quello di perpetuare il mito dello statuto di rifugiato palestinese il quale crea una forte pressione su Israele affinché riconosca uno stato palestinese. Provi a immaginare cosa accadrebbe nel caso in cui fosse creato uno stato palestinese, se la diaspora palestinese venisse immessa al suo interno di propria sponte o attraverso l’espulsione forzata da parte degli stati arabi. Sarebbe una situazione completamente ingestibile per Israele a livello infrastrutturale. Un quantitativo massiccio di palestinesi destituiti separati dal prospero Israele da una barriera o da un muro di dieci centimetri. Sarebbe un disastro totale.

Sempre per restare in tema degli Accordi di Oslo, Secondo lei a chi va conferita la maggiore responsabilità per il loro venire in essere, a Shimon Peres, Isaac Rabin, o Yossi Beilin?

Il responsabile maggiore fu Rabin, perché nutriva fortissime apprensioni sull’accordo ma non volle contrapporsi ai suoi rivali politici all’interno del partito e tristemente andò contro la propria coscienza pur di mantenere la propria posizione. Se si fosse opposto agli Accordi di Oslo avrebbe perso la sua posizione all’interno del partito. Malgrado Peres e Beilin abbiano una grande colpa per la loro iniziativa, la responsabilità maggiore fu di Rabin, per non esservisi opposto.

Donald Trump ha modificato drasticamente l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele dopo gli anni assai problematici dell’Amministrazione Obama. Ha determinato cambiamenti notevoli dichiarando Gerusalemme la capitale di Israele, spostando l’ambasciata americana, tagliando i fondi all’UNRWA e all’Autorità Palestinese. John Bolton, il quale è sempre stato un risoluto critico del paradigma dei due stati, è oggi il Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Non è questo il momento migliore per Israele per chiedere un nuovo inizio, un completo cambiamento di scenario?

Ancora una volta la risposta breve è, sì decisamente. La cosa triste relativamente al grande progresso strategico di Israele, è che questo progresso si è determinato a causa di due sviluppi nessuno dei quali è stato prodotto dalla politica israeliana, dalla sua prudenza o preveggenza. Uno è l’inaspettata elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e l’altra è la salita al potere di Al Sisi in Egitto. Perché, se le cose fossero andate come da previsioni, con Hillary Clinton presidente, credo che oggi ci troveremmo in una situazione molto molto difficile e la stessa cosa sarebbe avvenuta se i Fratelli Musulmani fossero ancora al potere in Egitto. Dunque sì, ritengo certamente che questo sia un momento molto opportuno per Israele e che dovrebbe essere sfruttato al meglio, ma non credo che sia quello che sta facendo il governo in carica. E’ questo il momento per sistemare le cose in modo irrevocabile.

Nel 2010, Geert Wilders, il politico olandese e fondatore del Partito della Libertà, in un discorso pronunciato qui in Israele ha dichiarato che uno stato palestinese esiste già ed è la Giordania. Più di recente, in un articolo apparso sul Jerusalem Post, l’ex ministro israeliano Gideon Saar ha sottolineato che fino al 1988 i palestinesi che vivevano in Cisgiordania avevano tutti passaporti giordani. Lei crede che sia una opzione realistica che il fragile regno hashemita sarebbe disposto ad assorbire quei palestinesi che vivono nelle aree A e B della Cisgiordania?

Penso che sia giusto affermare che storicamente, geograficamente e demograficamente la Giordania è la Palestina. La Giordania ha avuto la parte più grande della Palestina che è stata strappata via dal Mandato e Gideon Saar ha di certo ragione quando dice che fino al 1988 i palestinesi della Giudea e della Samaria avevano un passaporto giordano che gli è stato illegalmente tolto dal Re di Giordania. Il fatto che i residenti palestinesi della Giudea e della Samaria siano apolidi non ha nulla a che fare con Israele, ma con l’azione illegale del sovrano giordano. Certamente la Giordania è uno degli Stati in cui potrebbero risiedere gli abitanti della Giudea e della Samaria. L’ipotesi di lavoro sulla quale dovrebbe concentrarsi il governo israeliano deve tenere conto del fatto che la dinastia hashemita ha una vita molto breve. È molto difficile capire fino a quando questo regime possa perdurare. D’altra parte, ha resistito molto più a lungo del previsto. Penso che, quantomeno, si dovrebbe ipotizzare cautamente un arco di vita limitato e Israele dovrebbe pensare al dopo; e se si verificasse un cambio di regime in Giordania sarebbe perfettamente logico definire il paese come uno Stato palestinese, visto che ha già una maggioranza palestinese. Per molti versi, la popolazione palestinese in Giordania offre un esempio di un possibile risultato del Paradigma Umanitario. Non so esattamente in quale paese i palestinesi dovrebbe reinsediarsi, ma non vi è nulla che precluda alla Giordania di essere uno di questi paesi o addirittura il paese principale. Se il reinsediamento dovesse essere accompagnato da massicci aiuti finanziari forse, tale paese potrebbe essere la Giordania. Qualcuno, come il mio amico Ted Belman, ritiene che subentrerà un regime molto benevolo. Spero che abbia ragione, non sono sicuro che sarà così, che un futuro regime sarebbe meglio disposto verso Israele. La differenza sostanziale tra il paradigma giordano-palestinese e il Paradigma Umanitario è che nel primo caso ci sarebbe bisogno di trovare un accordo con il futuro regime; con la mia soluzione, invece, non occorre un accordo con la collettività araba, saranno necessari degli aiuti finanziari affinché i palestinesi abbiano diritto a risiedere in altri paesi.

L’anno scorso, qui in Israele, Daniel Pipes mi ha detto durante una intervista, che è fuori dubbio che i palestinesi abbiano perso e che vivono in un “mondo di fantasia”. Lei è d’accordo?

Mi congratulo vivamente con Daniel Pipese per la sua iniziativa dell’Israel Victory Project, perché occorre molto coraggio intellettuale per questo tipo di iniziativa e sono d’accordo con lui sul fatto che la vittoria che i palestinesi pensano di aver conseguito, quando invece dovrebbero ammettere di essere sconfitti, sia una precondizione per qualsiasi soluzione duratura. Concordo con lui su quello che deve accadere, sono meno d’accordo su ciò che è accaduto e che ha indotto i palestinesi ad avere buone ragioni per non sentirsi sconfitti. Se si guarda a quanto successo dal 1967 dopo la travolgente vittoria dell’Idf, quando nessuno avrebbe preso seriamente in considerazione uno Stato palestinese come una opzione praticabile e se si guarda a ciò che è stato conseguito oggi –  il completo ritiro di Israele sotto il profilo diplomatico in tutto il mondo e lo Stato palestinese che da decenni è diventato il dominante paradigma politico – penso che i palestinesi abbiano buoni motivi per non sentirsi sconfitti. Sono d’accordo sul fatto che le loro condizioni economiche sono terribili, ma questo non è un paradigma davvero importante per la loro leadership. Si pensi ai russi contro i tedeschi a Stalingrado in gravi difficoltà e prossimi a morire di fame. Detto questo, sono un forte sostenitore dell’Israel Victory Project, ma penso che dovrebbe concentrarsi un po’ di più sull’obbiettivo da raggiungere e non aspettarsi che i palestinesi all’improvviso si addentrino in qualcosa di cui non sono stati capaci in cento anni e dichiarino di essere sconfitti. Non lo faranno.

Non sono sicuro che vivano in un mondo di fantasia perché ogni volta che Israele offre una soluzione contro di loro, essi trovano una contromisura. Quando Israele ha eretto una barriera di recinzione per difendersi dagli attentatori suicidi, i palestinesi hanno iniziato a lanciare razzi, e dopo che [il sistema antimissile] Iron Dome  ha intercettato i razzi, essi hanno cominciato a costruire tunnel e così Israele ha avviato la costruzione di una barriera sotterranea da un miliardo di dollari per fermarli. Immaginiamo di doverlo fare in Giudea e Samaria, non su un fronte di 50 km, ma di 500 km. All’improvviso abbiamo questa supercostosa barriera sotterranea e i palestinesi hanno cominciato a mandare gli aquiloni e i palloni incendiari incredibilmente economici che hanno bruciato centinaia di acri di coltivazioni agricole. La mia grande paura è che un giorno saranno in grado di inviare uno sciame di droni dotati possibilmente di carichi esplosivi non convenzionali da lanciare sulle comunità israeliane. Penso che abbiamo costretto i palestinesi a riarmarsi, rinnovarsi, riorganizzarsi, senza spezzare la loro volontà di combattere. Ormai avrebbero dovuto essere tornati in sé, ma non lo hanno fatto. Se si confronta da dove provengono e dove sono oggi, la situazione è migliorata fino a diventare irriconoscibile. Si sono sostituiti a re Hussein nel rivendicare la Giudea e la Samaria. L’unico modo per infliggere la sconfitta ai palestinesi è quello di smettere di trattarli come un possibile partner di pace e considerarli per quello che sono, nemici inconciliabili, e delineare di conseguenza una politica adeguata. Gli esempi della vittoria e della sconfitta attinti dalla Seconda guerra mondiale sono fuorvianti perché la Germania non era circondata da un mondo teutonico e il Giappone non faceva parte di un grande mondo nipponico che poteva inviare ribelli o istigare contro qualsiasi accordo raggiunto. Questo è l’errore di calcolo che gli americani fecero in Iraq e in Afghanistan. È stato facile per loro rovesciare i regimi al potere, molto facile, ma circa il 90% degli stanziamenti per la guerra in Iran e in Afghanistan è stato impiegato dopo la deposizione di Saddam Hussein e dopo il colpo inferto ai Talebani, e il 95% di quel denaro è stato utilizzato per stabilizzare la situazione. La Germania e il Giappone, come ho detto prima, non potevano contare sulle risorse provenienti da persone con la stessa affinità etnica. Posso accettare la divisione del lavoro di Daniel. In America, egli dice che il compito del Victory Project è quello di convincere l’amministrazione statunitense del fatto che Israele abbia bisogno di ottenere la vittoria ed è compito degli israeliani decidere quale sia la vittoria. Sono d’accordo con questo. Ma la vittoria non può essere avere il medesimo significato per tutti. Si deve decidere che cosa occorre infliggere ai palestinesi affinché ammettano la sconfitta e ottengano una vittoria netta. Nella Guerra d’Indipendenza del 1948, da parte israeliana si registrarono 6.000 caduti, l’1%della popolazione. A seconda di quanti palestinesi si pensi che siano – 2 o 3 milioni – occorre causare 20-30mila vittime o ucciderne ancora di più perché Israele venga accettato come uno stato accanto al quale vivere in pace. Credo che questo sia un obiettivo molto difficile da raggiungere. Quello che penso è molto più facile da conseguire e consiste nell’incentivare l’immigrazione in altri paesi, invece di uccidere decine di migliaia di palestinesi.

Parliamo della situazione di Gaza. Sembra chiaro che Israele non voglia realmente il rovesciamento di Hamas in quanto questo provocherebbe una situazione destabilizzante e peggiore di quella attuale. Allo stesso tempo, nonostante i tumulti, il lancio di missili, gli attacchi incendiari tramite gli aquiloni e i palloncini, anche Hamas non sta cercando un altro conflitto con Israele perché probabilmente sarebbe l’ultimo per il gruppo terroristico. Qual è la sua opinione relativamente alla situazione nella Striscia, cosa consiglia?

Nel 1992 scrissi un articolo su quello che sarebbe accaduto se Israele avesse lasciato Gaza. Chiunque avesse avuto una buona conoscenza di scienze politiche avrebbe potuto predire facilmente quale sarebbe stato il risultato. Appena Israele si fosse ritirato da Gaza in un contesto dove non sussisteva una eredità politica consolidata, era abbastanza chiaro che il partito che avrebbe preso il potere sarebbe stato il più violento ed estremo, pronto a fare cose che i più moderati erano incapaci o non intenzionati a fare. In rapporto all’attuale situazione di Gaza, è già un incubo per la sicurezza di Israele. La vita è diventata completamente invivibile per gli ebrei che vivono nei dintorni dell’area di Gaza ed è solo una questione di tempo prima che i palestinesi possano estendere la loro presa. Abbiamo già assistito a tutto ciò. Ogni volta che Israele trova il modo di frenare una delle modalità di aggressione di Hamas, Hamas trova un modo per aggirarla. L’unica maniera per affrontare la situazione è modificare il proprio approccio nei suoi confronti. Non c’è altra via. Dobbiamo vedere i palestinesi non nella prospettiva di un partner per la pace, ma come un nemico implacabile e allo stesso tempo non possiamo considerare la collettività di Gaza come vittime di Hamas ma come il crogiuolo dal quale questa leadership è emersa. Questo approccio permette di vedere che la soluzione non è la ricostruzione di Gaza ma la sua descostruzione, o il cerchio della violenza si continuerà a ripetersi senza fine. Provi a immaginare per un momento cosa accadrebbe nel centro di Israele se invece di avere un confine di 50 km da controllare, Israele dovesse controllare un’area densamente popolata di 500 km dalla quale non dei missili, ma aquiloni e palloni incendiari venissero mandati nella direzione di Kfar Saba o Ra’anana o verso l’autostrada 6. L’unico modo per assicurarsi su chi governa Gaza è governarla in proprio e l’unico modo di governare Gaza senza governare un altro popolo è rimuovere questo popolo dal proprio controllo. E’ semplice logica matematica ed è anche una situazione che si può giustificare moralmente in modo assai semplice. Se il proprio punto di partenza è che gli ebrei sono titolati ad avere un loro Stato ebraico allora bisogna conferire a questo stato le condizioni per la sua sussistenza. Quindi non si può avere una concentrazione di popolazione il cui obbiettivo sia la sua distruzione.

Parliamo del Monte del Tempio. In questo momento, c’è una battaglia intramusulmana in merito al Monte del Tempio tra la Giordania, l’Arabia Saudita e la Turchia allo scopo di impadronirsi del posto, un gioco di spade che Israele sorveglia. Che ne pensa a riguardo?

Devo ammettere, da persona prettamente laica, e non osservante, di non aver mai dato grande importanza al Monte del Tempio, ma penso di aver sbagliato e che Israele dovrebbe riaffermare la propria sovranità su di esso. Questo perché ogni volta che Israele ha fatto benevoli concessioni all’altra parte ciò si è dimostrato sbagliato, come nel caso del Monte del Tempio, dove i radicali arabi hanno preso il sopravvento. Sarebbe molto pericoloso se la Turchia dovesse subentrare perché questo fa parte dell’ambizioso e megalomane comportamento di Erdogan, ma sono anche molto scettico nei confronti della Giordania e di qualsiasi altro custode musulmano, e penso che Israele dovrebbe gradualmente iniziare a riaffermare il proprio controllo sul sito. Dico questo non da un punto di vista religioso, ma da una prospettiva nazionalistica.

Sembra abbastanza chiaro che l’amministrazione Trump miri a un cambio di regime in Iran indebolendo fortemente la sua già fragile economia. L’Iran è percepito come la più grande minaccia alla sopravvivenza di Israele. Per questo motivo, c’è ora una convergenza strategica tra gli stati sunniti, guidati dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti e da Israele. Da acuto osservatore del Medio Oriente, cosa ne pensa di questa convergenza strategica e quali sono i suoi timori e le sue speranze per il futuro?

Sono certamente d’accordo sul fatto che la sola soluzione per l’Iran sia un cambio di regime. Penso che la situazione ora abbia registrato un enorme miglioramento, ma sono molto scettico riguardo alla durata della nostra alleanza con i sunniti. Una volta che la minaccia iraniana sarà sotto controllo, l’animosità potrebbe riaffermarsi. Quindi, sarebbe un grave errore  fare concessioni irrevocabili su qualsiasi fronte della coalizione sunnita. Hanno bisogno di noi, non è necessario fare alcuna concessione. Vorrei precisare che quello che succede ora in Iran rivela la disonestà e la doppiezza di quanto sostenuto dall’amministrazione Obama, per la quale o ci sarebbe stata una guerra oppure ci sarebbe dovuto essere il Piano d’azione congiunto globale (JCPOA). La fragilissima situazione socioeconomica in Iran dimostra chiaramente quanto fosse disdicevole presentare le cose in questo modo e che se Obama avesse proseguito con le sanzioni probabilmente ora saremmo stati più vicini a un cambio di regime. Invece, Obama ha consolidato il regime. La cosa molto difficile a proposito della politica di Obama è che quando si vedono queste deplorevoli conseguenze non si può mai sapere se siano state causate intenzionalmente o meno, se fossero parte di un piano o se siano state frutto di un mero errore. Detto questo, abbiamo di certo bisogno di avere una opportunità adesso. L’Iran sta attraversando un periodo molto difficile, la sua moneta è stata drasticamente svalutata, soffre di una grave siccità e ci sono segnali di molteplici disordini. Pertanto, sì. Ritengo che la prospettiva di un attuale cambio di regime sia più tangibile ora di quanto lo sia stata in passato.

Traduzione dall’originale inglese di Niram Ferretti e Angelita La Spada

 

 

 

 

 

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