La decisione da parte dell’attuale maggioranza di governo di varare una riforma della giustizia che limiti lo strapotere giudiziaro della Suprema Corte israeliana, di fatto trasformata sotto l’egida del giudice demiurgo Aharon Barak in una sostituto del ramo legislativo e guardiana dell’esecutivo, sta suscitando da giorni un’ondata massiccia di proteste e di esagitati allarmismi. Le parole d’ordine, il condensato sloganistico che viene usato come corpo contundente contro la riforma è lo slabbrato ma sempre efficace spauracchio della presunta “fine della democrazia”.
La fine della democrazia è il più efficace e prevedibile degli slogan a disposizione della sinistra ognivolta che la destra giunta al potere si appresta a varare le sue leggi, non solo in Israele.
In Israele la democrazia avrebbe già, in effetti, dovuto essere morta da almeno un decennio, perlomeno tutte le volte che Benjamin Netanyhau è diventato premier. Quante volte si è sentito dire che con lui al potere, Israele sarebbe diventato una distopia fascista? Il pericolo per la democrazia era sempre lì, appena il più longevo primo ministro israeliano si apprestava a ricoprire di nuovo il ruolo. Adesso che lo ricopre per l’ennesima volta il pericolo si è ripresentato, ma questa volta non è rappresentato dalla sua persona ma dalla volontà di riformare finalmente un potere che anno dopo anno, decennio dopo decennio, si è costituito come un surrogato dello Stato nello Stato.
Come ha sottolineato Russel A, Shaliv:
“Nonostante tutti i discorsi sui pesi e contrappesi, ai cittadini israeliani resta una Knesset debole e una Corte Suprema quasi onnipotente e onnipresente. Una regola fondamentale della democrazia è che ogni ramo sia controllato e limitato. Queste limitazioni esistono già nei confronti della Knesset. Ogni governo in Israele è composto da una coalizione di più partiti, ciascuno con i propri interessi e visioni del mondo. La natura della politica di coalizione è quella del compromesso e del dare e avere. Inoltre, la Knesset e l’esecutivo sono limitati dalle elezioni e sono direttamente responsabili nei confronti dei cittadini israeliani, che possono fare campagna elettorale, protestare o scendere in piazza. Se la Knesset dovesse adottare politiche che limitano i diritti dei cittadini israeliani, saranno prontamente espulsi alle prossime elezioni. Ciò è in contrasto con la Corte Suprema, che è isolata dalla responsabilità popolare e non deve affrontare nessuna conseguenza per la legislazione giudiziaria o la creazione di specifici indirizzi politici”.
Limitare il ruolo dell Corte Suprema israeliana, obbiettivo che si pone la riforma al varo, non significa, come viene affermato dai dettrattori della riforma, attentare alla democrazia, ma semmai equilibrarla sottraendo alla Corte il ruolo surrettizo di legislatore che spetta di fatto al parlamento, ma siccome è un ruolo a cui questo pezzo di potere non intende affatto rinunciare con facilità, si è montata ad arte l’accusa che l’esecutivo si appresta a varare una legge liberticida.
E’ tale il consolidamento della Corte e l’estensione dei suoi appoggi che si è giunti a prospettare un grande danno economico per il paese se la riforma dovesse passare. Dunque corrono voci di ritiri di capitali, di abbondoni di aziende straniere, come se Israele si trovasse sull’orlo di una vera e propria deriva autoritaria. Il fatto stesso che il Segretario di Stato americano Antony Blinken nella sua recente visita in Israele abbia espresso la propria preoccupazione su una riforma che riguarda esclusivamente la politica interna di uno Stato sovrano, la dice lunga su quanto questa riforma sia stata strumentalizzata e sull’estensione degli interessi consolidati determinati ad arginarla.
Si può capire. La Corte, dagli anni ’90 in poi si è progressivamente assunta il ruolo di tutrice morale dello Stato, e non, come dovrebbe essere, di organo esclusivamente preposto a valutare se le leggi proposte dall’esecutivo sono giuridicamente fondate, in linea con il corpus giuridico consolidato e nel rispetto delle leggi fondamentali, il corpus legislativo che, in assenza di una Costituzione in senso proprio, in Israele ne fa le veci. Ed è proprio sulle leggi fondamentali che la Corte si è assunta il ruolo di plasmarle secondo il proprio insindacabile indirizzo.
Il ruolo decisamente politico che essa si è assunto è di un parlamento surrogato, o parlamento ombra in grado di stabilire cosa è giusto o sbagliato per l’indirizzo generale dello Stato.
Un paese dove il sistema politico è subordinato al potere giudiziario, di fatto già non è una democrazia, sicuramente non lo è nel senso auspicato da Montesquieu come specificato ne Lo Spirito delle Leggi,
“Non c’è piú libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Infatti se fosse unito al potere legislativo, ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini, in quanto il giudice sarebbe legislatore” (Lo Spirito delle Leggi, XI, 6)
In Israele, nonostante la separazione dei poteri, è in vigore da tre decenni la “potestà arbitraria” di cui scrive Montesquieu che ha trasformato surrettiziamente il giudice in legislatore.
E’ ora che questa potestà cessi e la politica si riprenda le prerogative che le spettano.