Nonostante la proliferazione globale della violenza jihadista negli ultimi decenni, molti occidentali istruiti considerano ancora questo fenomeno un corollario di un’errata interpretazione estremista della jihad che non ha nulla a che fare con il presunto significato reale del concetto (cioè una battaglia spirituale interiore), o addirittura con lo spirito e gli insegnamenti reali dell’Islam. Tuttavia, mentre la stragrande maggioranza dei musulmani del mondo non sostiene attivamente il movimento jihadista globale, ciò non lo rende un dirottatore o un deformatore dell’Islam. Piuttosto, sia gli obiettivi dichiarati del movimento sia il suo modus operandi riflettono testi autorevoli, tradizioni e storia dell’Islam. Ma per comprenderlo è necessaria una maggiore chiarezza concettuale circa l’interrelazione tra le tre categorie occidentali al centro della polemica: politica, teologia e religione.
Politica
Il movimento jihadista globale è politico in due aspetti significativi e incontrovertibili. Per prima cosa, aspira a dirigere e amministrare gli stati così come l’ISIS è riuscito a fare in alcune parti della Siria e dell’Iraq, anche se brevemente. In effetti, i jihadisti possiedono quella che considerano essere un’arte islamica unica ed efficace per dirigere e amministrare gli stati. Inoltre, i jihadisti cercano di acquisire potere politico attraverso mezzi rivoluzionari violenti, principalmente insurrezionali, ma supportati dal terrorismo e da altre tattiche.
La violenza jihadista, sia indirizzata ai regimi musulmani sia ai governi e alle popolazioni occidentali, è quindi politica in quanto cerca di portare l’Islam al potere negli Stati territoriali e quindi di attuare la propria agenda politica. Lo scopo finale dei jihadisti è quello di ridisegnare o rimuovere i confini tra questi stati attualmente sovrani ai sensi del diritto internazionale e stabilire un califfato globale.
In linea con la visione fondamentale dell’Islam, i jihadisti rifiutano categoricamente una separazione funzionale tra la sfera privata-spirituale e quella pubblico-politica della vita individuale e comunitaria a causa della loro comprensione di due caratteristiche fondamentali dell’Islam: l’Islam è sia “completo” (kamil), che è perfetto e sufficiente, e “comprensivo” (shamil), includente tutti gli aspetti della vita umana. Come ha affermato il fondatore del gruppo islamico Hizb at-Tahrir, Taqi ad-Din an-Nabhani, l’Islam “è un regime completo e onnipervadente per la totalità della vita umana, che i musulmani sono obbligati ad attuare ed eseguire nella sua interezza”. [ 1]
Quindi, questa concezione completa e onnicomprensiva dell’Islam, che non riconosce distinzione o separazione tra politica e religione, tra la religione e il sacro, dove inserisce la categoria della “politica” nel pensiero jihadista? La lingua araba ha una parola per “politica” –siyasa – che corrisponde alla categoria occidentale. Ma siyasa non è un concetto coranico, il che potrebbe spiegare perché non è un concetto centrale nella letteratura jihadista. Vi sono, d’altra parte, alcuni importanti concetti coranici che hanno un ruolo preminente nel pensiero jihadista che potrebbero essere descritti come politici in termini occidentali. Questi includono khalifa (califfo), Shari’a e il termine meno conosciuto hukm, che significa “giudizio” o “regola”. I passaggi coranici che coinvolgono uno o più di questi concetti appaiono spesso nella scrittura jihadista e formano insieme il fondamento teologico della teoria politica jihadista.
Hukm, dal verbo hakama (giudicare) significa regola in tutte le sue dimensioni politiche. Il verbo hakama, per esempio, si trova in tre passaggi coranici strettamente correlati nella quinta sura (al–Ma’ida, La Tavola), che sono spesso citati nella letteratura jihadista, in particolare nelle analisi che cercano di sostanziare lo status di infedeli dei governi negli attuali stati a maggioranza musulmana.
La formula si trova per la prima volta nell’ultima parte del versetto 42: “I miscredenti sono coloro che non giudicano secondo le rivelazioni di Dio”. [2] Il passaggio è ripetuto con variazioni minori nei versetti 45 e 47. [3] I jihadisti interpretano questi versetti come indicanti che qualsiasi governante il quale non governi in stretta conformità con la Shari’a (così come la definiscono) è un infedele e quindi deve essere contrastato, anche violentemente, in accordo con la loro visione espansiva dell’apostasia e delle sue punizioni.
Khalifa, o califfo, deriva dal verbo khalafa, che significa seguire o succedere. Il califfo significa letteralmente successore e, nel contesto dell’Islam, indica in modo specifico il successore del profeta Maometto, il primo governatore politico dell’Islam. L’annuncio, nel 2014, da parte dello Stato islamico (ISIS) del suo presunto califfato, fornisce una vivida illustrazione di come il concetto coranico di califfo sia usato dai jihadisti a sostegno dei loro obiettivi politici.
La dichiarazione aveva come titolo “Questo è ciò che Dio ha promesso” [4] e inizia con il versetto 55 Surat an–Nur (La luce), che dice:
Dio ha promesso a quelli di voi che credono e fanno opere buone di renderli padroni della terra come Egli ha fatto con coloro che sono venuti prima, per rafforzare la religione. Ha scelto per loro, e di cambiare le loro paure in sicurezza…”Lascia che mi adorino e non servano nessuno oltre a Me. Davvero malvagi sono coloro che dopo ciò mi negano”.
Il verbo tradotto “rendere padroni” (“governanti” in altre traduzioni) è istakhlafa dalla radice khalafa e, quindi, con connotazioni di califfo. [5] Sulla base di questo e dei passaggi coranici correlati, la dichiarazione dell’ISIS afferma che Dio ha promesso all’Islam la leadership e la sovranità globale sulla terra, ma che l’adempimento di questa promessa è subordinato al fatto che Dio venga adorato nel monoteismo più rigoroso. Di conseguenza, spianare la strada per l’adempimento della promessa politica di Dio è una delle missioni centrali per il movimento jihadista globale.
Questa disamina dell’esegesi jihadista dimostra che mentre i jihadisti non riconoscono formalmente la distinzione occidentale tra politica e religione, posseggono qualcosa di simile a una teoria politica. Dio governa sulla terra come il sovrano, attraverso la sua legge rivelata nella forma della Shari’a, e il compito politico umano è quello di assicurare che la Sua sovranità sia attuata sottoponendo e ordinando tutte le relazioni sociali umane all’arbitrato di quella legge rivelata. L’apparente contraddizione tra l’inseparabilità della religione e della politica è risolta ricordando che l’Islam è un modo di vivere completo e onnicomprensivo. Per i jihadisti, l’Islam è un nidham (regime) e un manhaj (programma) che deve essere implementato completamente sia nella sfera privata sia in quella pubblica. In questo senso, la teoria politica jihadista e il manifesto politico che ne scaturisce (nel senso occidentale di ciò che si intende per politico) sono semplicemente dimensioni dell’islam.
Combattere la jihad, istituire stati islamici e imporre pubblicamente la Shari’a sono collegati a obblighi e doveri morali personali, come ad esempio eseguire le salat – le cinque preghiere quotidiane. Tutto fa parte del regime e del programma. Emblematicamente, i jihadisti descrivono spesso il jihad come un ibada (culto), una chiara indicazione di come il jihad sia integrato all’interno di una concezione olistica e pratica dell’Islam come modo di vita.
Il movimento jihadista globale e la sua violenza sono di fatto un movimento politico. La domanda, tuttavia, è se la politica da sola possa fornire una comprensione completa ed esauriente del movimento e della sua violenza. Questo ci conduce alla teologia.
Teologia
La teologia, nel senso occidentale, non è una categoria del pensiero jihadista o di quello islamico. Un termine arabo equivale alla parola inglese “teologia”, ilm al–lahut, ma si riferisce esclusivamente alla teologia cristiana.
L’Islam, d’altra parte, ha una sua tradizione indigena di studi con un vocabolario unico designato dal termine comprensivo ulum Islamiya (scienze islamiche). Questi coprono una gamma di discipline, alcune con correlati in altre fedi, come la tafsir (esegesi), presenti anche nel giudaismo e nel cristianesimo. Altri sono unici dell’Islam, come la scienza del hadith, lo studio della biografia del profeta, e asbab an–nuzul, che è la scienza per determinare la sequenza e le circostanze in cui ogni passaggio del Corano è stato rivelato dato che ci sono passaggi all’interno di singole sure che non sono disposti in ordine cronologico.
Tuttavia, si può impiegare in modo produttivo la concezione occidentale (o cristiana) della teologia per analizzare il movimento jihadista globale in modo molto simile a quanto accade con la politica. Ciò permette di evidenziare alcune caratteristiche distinte che non sono analizzate dalla politica e che differenziano il movimento jihadista globale dai movimenti politici laici con i quali viene spesso paragonato in modo fuorviante.
Una definizione cristiana convenzionale di teologia “denota l’insegnamento di Dio e della sua relazione con il mondo dalla sua creazione alla sua consumazione, in modo particolare in una esposizione ordinata e coerente.” [6] In questo senso, è possibile concludere che i jihadisti possiedono una teologia che plasma la loro visione del mondo e la loro attività politica.
Introdurre la categoria della”teologia” ci permette anche di identificare qualcosa di unico relativamente ai concetti politici jihadisti come califfo, shari’a e hukm. Sono concetti teologici dalle spiccate somiglianze che fanno riferimento all’insegnamento su Dio e alla sua relazione con il mondo, e trovano la loro fonte in un testo considerato come la parola letterale di Dio, che articola la sua volontà per l’umanità.
Alcuni dei concetti fondamentali del pensiero e dell’attività jihadista possono quindi essere descritti usando due distinte categorie occidentali: politica e teologica. In altre parole, occorrono due categorie concettuali occidentali per descrivere adeguatamente, per non dire spiegare, aspetti chiave del pensiero jihadista, che si uniscono in modo da formare una “teologia politica”. I concetti centrali jihadisti come il califfato, la shari’a e l’hukm sono pensati in modo più adeguato come concetti teopolitici che riguardano sia la relazione di Dio con il mondo sia l’amministrazione degli stati.
Una comprensione del terrorismo jihadista globale illustra la necessità di integrare politica e teologia. La legittimazione morale dell’uccisione dei cittadini occidentali è fondamentalmente teologica, basata sull’interpretazione dei comandamenti fatti da Dio nel Corano e sul modello di guerra praticato da Maometto e dai suoi successori. Ma la selezione degli obiettivi terroristici viene spesso fatta sulla base di considerazioni politiche. Gli obiettivi sono raramente, se non mai, selezionati a causa della rivelazione, ma piuttosto per il loro valore strategico, simbolico e politico in virtù dell’agenda politica jihadista più ampia: giungere al potere e attuare il “vero” governo islamico.
Perché, allora, è così controverso parlare di teologia quando si tratta del movimento jihadista globale e della sua violenza? Una spiegazione è la natura delle scienze sociali contemporanee in cui esiste un disagio palpabile e talvolta esplicito nei confronti della categoria della teologia. Ciò può essere attribuito a quello che Jason Blum definisce appropriatamente il “naturalismo metodologico e ontologico” della maggior parte dei ricercatori di scienze sociali, l’idea che “i fenomeni devono essere spiegati solo attraverso le categorie e le cause naturali [mondane, non religiose] …” [7]
Il naturalismo metodologico e ontologico considera la teologia applicata ai suoi argomenti di studio, irrilevante perché non esiste una cosa come “la relazione di Dio con il mondo”. I concetti teologici e la retorica, insieme alla pratica e all’esperienza religiosa, devono essere spiegati esclusivamennte da fenomeni e cause naturali, che diventano necessariamente di natura ulteriore quando gli argomenti richiedono motivazioni e obiettivi teologici. La politica, a differenza della teologia, è considerata reale, tangibile e, soprattutto, naturale, e quindi una categoria legittima per spiegare il movimento jihadista globale.
C’è un motivo di attritio per gli scienziati sociali, tuttavia, perché la letteratura jihadista è satura di linguaggio teologico. Quindi, i ricercatori devono affrontare la teologia espressa dai jihadisti. Due sono le strategie comuni adottate nella letteratura accademica e nei commenti pubblici. Una è quella di minimizzare l’importanza della teologia jihadista e quindi di ignorarla. L’altra è di elaborare la teologia jihadista come mera politica con un altro nome.
Thomas Hegghammer, uno dei massimi esperti del movimento jihadista globale, offre una vivida illustrazione della strategia “minimizza e ignora”. Pur riconoscendo che il movimento “ha una dimensione sia teologica che politica e può essere analizzato da entrambe le prospettive”, consiglia di concentrarsi esclusivamente sulla politica perché la teologia, sebbene sia utile per comprendere “l’origine intellettuale di particolari testi”, non può spiegare le “preferenze politiche” “dei jihadisti. [8] I jihadisti, quindi, hanno una teologia, ma che non è considerata particolarmente illuminante per comprendere il loro programma politico violento e rivoluzionario.
Da parte sua, il politologo francese Olivier Roy, che ha pubblicato ampiamente sull’islamismo e il terrorismo islamista, sostiene che la violenza jihadista deriva da quella che chiama “l’islamizzazione del radicalismo” e non dalla “radicalizzazione dell’islam”. Egli sostiene che i “giovani ribelli” hanno semplicemente “trovato nell’Islam il paradigma della loro rivolta totale”. [9] In altre parole, i jihadisti devono essere davvero intesi come rivoluzionari politici, che incidentalmente esprimono le loro tendenze attraverso l’Islam, forse per ragioni contingenti, cioè, il fatto di essere nati in famiglie e comunità musulmane.
I fatti, tuttavia, costringono Roy a usare costantemente il termine “religione”, minando la sua tesi secondo cui la teologia sarebbe accessoria. Ammette che i jihadisti stranieri provenienti dalla Francia e dal Belgio appaiono in modo schiacciante musulmani “rinati” che, “dopo aver vissuto una vita eminentemente secolare … rinnovano improvvisamente la loro osservanza religiosa”. Conclude inoltre che sono “credenti sinceri”. Ma poi appare confuso dal fatto che esista una “scarsità di conoscenze religiose tra i jihadisti”. [10] Roy interpreta questa scarsità di conoscenze teologiche come prova che la teologia sia incidentale all’impulso rivoluzionario che spinge i ribelli musulmani alla violenza. Questo è un chiaro esempio della strategia della “politica con un’altra veste”.
L’analisi di Roy riflette un problema comune tra i sociologi contemporanei: l’incapacità di prendere sul serio l’esperienza religiosa professata, o anche osservabile, anche quando queste si applicano ai giovani che hanno preso la decisione decisiva di rinunciare alle loro vite per combattere e possibilmente morire nel nome dell’Islam.
Un’altra fonte di controversia riguarda gli studiosi musulmani occidentali, per i quali le domande sulla teologia jihadista sono inevitabilmente normative. Per gli studiosi musulmani, in gioco c’è molto di più che una semplice descrizione della teologia jihadista. È del tutto comprensibile che tali studiosi desiderino contestare le affermazioni teologiche normative fatte dai jihadisti e offrire una lettura alternativa di quelle stesse fonti e tradizioni.
La controversia, tuttavia, deriva dal fatto che il movimento jihadista globale non pone questioni teologiche normative per gli studiosi non musulmani, o per la maggior parte degli occidentali. Tuttavia alcuni studiosi musulmani interpretano erroneamente le affermazioni descrittive di studiosi non musulmani sulle credenze jihadiste contemporanee come affermazioni normative sull’Islam nel suo insieme, e quindi si oppongono a tali descrizioni. Si oppongono agli studiosi non musulmani che adottano il linguaggio dei jihadisti perché ritengono che legittimi ingiustamente i jihadisti.
Alcuni portano questa opposizione agli estremi. Lo studioso musulmano Asma Afsaruddin, ad esempio, ha sostenuto che “coloro che descrivono le azioni di questi gruppi militanti come jihad sono parte del problema”. Ha anche suggerito provocatoriamente che sono gli “islamofobi” che “si concentrano sulla nozione di jihad come combattimento armato”. [11] Questo rifiuto persino di parlare della teologia jihadista spinge molti studiosi non musulmani verso le zone più comode e placide delle spiegazioni politiche, che sono anche quelle offerte da studiosi musulmani come Afsaruddin.
Ma come notò Sun Tzu in un celebre aforisma, “Se conosci te stesso ma non il nemico, per ogni vittoria ottenuta, subirai anche una sconfitta.” [12] Impedire lo studio onesto ed empirico del pensiero jihadista è del tutto controproducente, una ricetta per il grossolano fraintendimento di un nemico con cui l’Occidente – giustamente o erroneamente – si trova in guerra. Studiosi musulmani come Afsaruddin dovrebbero riconoscere che non è “l’islamofobia” che ha portato il jihad nell’ambito della discussione pubblica: la responsabilità è del movimento jihadista globale. Se non ci fossero dei jihadisti che si auto-definiscono tali che dichiarano il jihad contro molti stati a maggioranza musulmana e contro i loro alleati occidentali, allora la questione del jihad sarebbe probabilmente dibattuta così poco com lo era prima dell’11 settembre. Gli studiosi musulmani come Afsaruddin potrebbero anche essere più attenti al fatto che, mentre la loro lettura restrittiva e l’applicazione del jihad sono lodevoli, non illuminano ciò in cui i jihadisti credono, che è ciò che anche i politici, gli studiosi e il pubblico generale cercano di comprendere.
Religione
La religione è la categoria concettuale occidentale più facilmente osservabile nel pensiero jihadista. Il termine din (religione) si riscontra frequentemente e centralmente all’interno della letteratura jihadista. Inoltre, il jihad, come concepito dai jihadisti, è considerato un elemento fondamentale del din al–Islam (la religione dell’Islam). Si potrebbe sostenere che, nell’universo concettuale jihadista, i concetti teopolitici come il califfo, la shari’a e l’hukm siano correttamente da intendere semplicemente in quanto religiosi, o ancor più precisamente come islamici, iscrivibili nell’ambito del din.
Ma la categoria della “religione” crea una vera confusione nel contesto occidentale, rendendola una categoria difficile allo scopo di analizzare il movimento jihadista globale e la sua violenza. Il cuore del problema è che la religione nel contesto occidentale è generalmente interpretata come un fenomeno sia plurale sia generico, nel senso che esistono più religioni che condividono un’essenza comune. La visione occidentale è evidente nella fissazione delle università occidentali nei confronti della religione comparata come metodologia di ricerca e obiettivo degli studi religiosi, e nella concomitante ossessione di volere identificare e definire l’essenza transculturale della religione.
L’accademico americano Kenneth Rose, ad esempio, definisce la religione come “la volontà umana di volersi relazionare con una dimensione immateriale di beatitudine e assenza di morte.” [13] L’intellettuale cattolico franco-americano René Girard definisce la religione come “qualsiasi fenomeno associato agli atti del ricordare, commemorare e perpetuare una unanimità che origina dall’assassinio di una vittima surrogata. “[14] Queste sono le definizioni essenzialistiche classiche della religione. Il problema è che i jihadisti credono in una sola religione: l’Islam. Quando impiegano il termine “religione” (din), non ha connotazioni plurali o generiche, rendendo così marginalmente utili le definizioni accademiche della religione come cornici analitiche per potere comprendere il movimento jihadista globale.
È vero che le definizioni di religione di Rose e Girard potrebbero essere applicate in senso lato al movimento jihadista globale. Ma è improbabile che la ricerca di beatitudine e di assenza di morte e la commemorazione dell’omicidio di una vittima surrogata aiutino a comprendere la mentalità e l’agenda jihadista. Qualsiasi indagine proficua sulla dimensione religiosa del movimento jihadista globale deve iniziare con l’Islam, non con ciò che il movimento jihadista globale potrebbe condividere con il buddismo.
Naturalmente, non è illegittimo indagare se esistano legami intrinseci tra religione e violenza. Ma questa è una domanda separata da quella del ruolo della religione dell’Islam (din al–Islam) nel pensiero e nell’azione jihadista, e la fusione dei due non aiuta la comprensione di quest’ultima. Le crociate cristiane del 12 ° e 13 ° secolo o l’intreccio della chiesa tedesca con il Terzo Reich non illuminano il pensiero, le motivazioni e gli obiettivi dei jihadisti del XXI secolo. Eppure questo genere di questioni si intromette costantemente nel dibattito sul movimento jihadista globale.
La falsa dicotomia tra religione e politica ha lungamente ostacolato l’analisi del conflitto dell’Occidente con i jihadisti contemporanei. Invece di aderire a questo paradigma facile e datato, gli accademici, i giornalisti e i politici occidentali dovrebbero rinunciare alla stagionata negazione del ruolo della teologia islamica all’interno del jihadismo contemporaneo. Riconoscere che l’Occidente affronta una potente “teologia politica islamica” nella forma del movimento jihadista globale sarà un primo passo verso la comprensione della vera natura di una delle sfide più durature alla propria sicurezza.
Note
[1] Taqi ad-Din an-Nabhani, Nidham al-Hukm fi-l-Islam, expanded and revised by Abd al-Qadim Zallum (Hizb at-Tahrir Publications, Online, 2002), pp. 13-14.
[2] Qur. 5:44. Tutte le traduzioni in inglese dei passagggi coranici sono tratte da N. J. Dawood, trans., The Koran (London: Penguin Classics, 2006). La parola qui tradotta come “miscredenti” (kafirun) è la stessa parola che è spesso tradotta con “infidele.”
[3] “Miscredenti” è utilizzato for “colpevole” (dhalimun) nel versetto 45 e “empio” (fasiqun) nel versetto 47.
[4] Abu Muhammad al-Adnani, “This Is What God Has Promised,” June 29, 2014.
[5] Rif. Corano. 2:30, che è anche citato nel proclama dell’ISIS: “Questo è ciò che Dio ha promesso”.
[6] D.F. Wright, “Theology,” in Martin Davie et al., eds., The New Dictionary of Theology: Historical and Systematic, 2nd ed. (Downers Grover, Ill.: IVP Academic, 2016), p. 903.
[7] Jason Blum, “Pragmatism and Naturalism in Religious Studies,” Method and Theory in the Study of Religion, 2 (2011), p. 84.
[8] Thomas Hegghammer, “Jihadi-Salafis or Revolutionaries? On Religion and Politics in the Study of Militant Islamism,” in Roel Meijer, ed., Global Salafism: Islam’s New Religious Movement (London: Hurst and Company, 2009), p. 264.
[9] Olivier Roy, “Who Are the New Jihadis,” The Guardian (London), June 5, 2017.
[11] Asma Afsaruddin, “Islamist Militants Carry out Terror, not Jihad,” Religion News Service, June 9, 2017.
[12] Sun Tzu, The Art of War (Berkeley: Ulysses Press, 2007), chap. 3:18.
[13] Kenneth Rose, Pluralism: The Future of Religion (New York: Bloomsbury, 2013), p. 12.
Jonathan Cole ha conseguito un dottorato di ricerca in teologia politica presso la Charles Sturt University e un MA di specializzazione in studi mediorientali presso l’Australian National University. Ha lavorato come analista senior sul terrorismo presso l’Office of National Assessments e la Australian Signals Directorate
Traduzione di Niram Ferretti
https://www.meforum.org/7265/politics-theology-and-religion-in-jihadist