Pasqua di liberazione, Pasqua originaria di ogni Pasqua, festa di libertà per gli ebrei e universale per tutti i giusti che scelgono la libertà-responsabilità, una vita segnata dall’azione etica.
Pesach, radice ebraica, significa “passaggio”, da un tempo tanto lontano in cui gli ebrei uscirono dall’egitto in una notte di luna piena, a oggi, a domani.
Pesach pretende e raggiunge il pieno coinvolgimento della memoria, e di una completa immedesimazione identitaria, vivere questi otto giorni come se io stesso, noi stessi, veniamo liberati, ci liberiamo questa notte, qui e ora.
Ci trasferiamo lontani nel tempo, in quell’evento cruciale, in quell’ora grande e terribile del passaggio di Dio, che uccide i primogeniti egiziani, uomini e animali, e invece “passa” oltre le case dei figli di Israele, li risparmia avendoli riconosciuti dal marchio di sangue sullo stipite delle porte (l’origine della mezuzah). Diversi sono i passaggi: Pesach è pure la festa delle azzime, la festa della primavera, celebrazione del passaggio dal letargo alla veglia, dall’inerzia alla fertilità. Proibito mangiare cibo lievitato o fermentato, nel significato di una condotta etica contro l’orgoglio, il gonfiore dell’ego, in una ritualità che non ripete ma rinnova.
Pesach esprime il cambiamento dalla condizione di schiavitù a quella della libertà. Per questo, l’Esodo è divenuto il simbolo potente di ogni anelito rivoluzionario e liberatorio. Per Jonathan Sacks, Pesach è il rito più antico del mondo occidentale, ancora e sempre vitale, dopo tremila e trecento anni, in una catena ininterrotta che va dall’Esodo ad oggi.
Già mentre avveniva l’uscita dall’Egitto, Dio ne prescrisse la sua celebrazione in eterno. Cioè, mentre accadeva, l’evento già diventava memoria, e ad ogni anno nella memoria l’evento risorge, come se avvenisse ogni anno, ogni generazione.
La haggadah, racconto dell’uscita dall’Egitto, viene letta, anzi cantillata prima e dopo il pasto, diventa una rigorosa esperienza etica, un vissuto immediato. La matzà, il pane azzimo, pane della memoria e della schiavitù, pane dell’impegno di libertà, cibo dell’afflizione e del riscatto, della povertà più umile e anche dell’autocontrollo di sé. Per otto giorni niente pane lievitato, gonfio, rigonfio, soffice e tronfio, ma solo questa fetta piatta, fragile, insapore.
Pesach fonde chiarezza e mistero, intimità personale, familiare, e vocazione identitaria, lontanissima distanza temporale e attualità bruciante, passato intenso che non passa e vitalità del presente, attesa di un futuro messianico.
Pesach-evento, con il suo seder, coinvolge in un’ebrezza sentimentale, vertigine mentale, coscienza etica esistenziale. In un’immersione in un passato rivissuto che si congiunge ad un futuro atteso. Ecco, ad esempio, alcune delle parole recitate la notte di Pesach:
“Se la nostra bocca fosse piena di canto come il mare, la nostra lingua di inno come una miriade di onde, le nostre labbra di lode come lo sconfinato firmamento. Se i nostri occhi fossero luminosi come sole e luna, se le nostre mani fossero spiegate come ali d’aquile in cielo, i nostri piedi svelti come cerbiatte, tutto ciò ancora non basterebbe per lodare Te, Signore nostro Dio, e Dio dei nostri padri, e benedire il tuo nome!”
Il grande maestro Yeshayahu Leibovitz, nel suo testo “Le feste ebraiche e il loro significato” (2010), nel capitolo “Riflessioni sulla festa di Pesach: tempo della nostra tradizione” sostiene che, viste le debolezze naturali dell’uomo, si sentì, come per il seder di Pesach, il bisogno di un servizio concreto, legato a utensili e strumenti:
“In un linguaggio popolare si potrebbe forse dire che la divinità rivelatasi al popolo, al monte Sinai, era troppo grande per quelle persone che, uscite dall’Egitto, erano abituate a una vita di schiavitù. E questo non vale solo per loro, ma è anche la situazione di ogni uomo in quanto uomo. E Mosè, nostro maestro, esprime questa condizione in una forma assai chiara quando dice: ‘Io sto tra il Signore e voi… per riferirvi la parola del Signore, poiché voi temete il fuoco’ (Dt, 5,5), e lo stesso popolo fa menzione di ciò esplicita Mosè: ‘Parla con noi e noi ti ascolteremo, ma Dio non parli con noi, altrimenti moriremo’ (Es, 20,16). […] Si può terminare dicendo che il servizio del Signore, nella sua forma concreta, fu dato a Israele affinché la forte pulsione religiosa che aveva non si trasformasse, di fatto, in idolatria; ed è possibile che questa forma di servizio rappresenti un rimedio e una terapia per la debolezza umana, che tende a cercare divinità visibili e percepibili.”
In generale, Leibovitz concepisce la fede ebraica come un servizio di Dio secondo le leggi della halakhah, dove l’osservanza dei comandamenti non ha un fine esterno a sé stessa, il credente non deve seguire le norme per ottenere un vantaggio comune o personale, ma per il servizio disinteressato di Dio. Per l’autore:
“Il fine dell’uscita dall’Egitto non fu raggiunto, e la missione formulata dall’espressione ‘tempo della nostra libertà’ assunse la forma di una libertà virtuale, di qualcosa che rappresenta solamente la condizione iniziale della libertà, senza che fosse ancora una vera libertà. Il popolo che uscì dall’Egitto non accolse su di sé la regalità del signore. Per questa ragione, non recitiamo lo ‘hallel completo’ durante questa festa, in cui fallì il tentativo di realizzare la nostra libertà. […] Non siamo ancora riusciti a liberarci dalla schiavitù della nostra natura umana. Questa situazione ci insegna che la parte fondamentale del ringraziamento per la redenzione non riguarda ciò che accade al popolo di Israele nel corso della storia, ma ciò che il popolo di Israele ‘compie’ nella storia”.
Anche se in disaccordo con la posizione di Leibovitz, che ritiene che la fondazione dello Stato di Israele non sia l’inizio della redenzione, è indubbio che il suo pensiero etico-religioso sia importante e molto significativo.
Il valore di Pesach va oltre la centralità della memoria, e aumenta di significato come libertà esistenziale e azione etica di fronte a un mondo caratterizzato da “oscurantismo spirituale” (Eric Voegelin), smemoratezza, presentismo infantile, de-moralizzazione, animalizzazione, idolatria, spietata politica di potenza, espansione di un antisemitismo apocalittico genocida.
“Il genio morale degli Ebrei” (Nietzsche) si eleva e risalta in uno splendore intenso di resistenza ed esistenza etica, di speranza universale. Pesach emana, da parte di un piccolo popolo, una grande luce liberatrice e veritativa.
