Da Oscar Santilli Marcheggiani riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Gent. Direttore,
Lo scorso 18 settembre, Giornata della Cultura Ebraica, sono stato in Sinagoga a Milano in occasione della Giornata Ebraica della Cultura a sentire l’intervista che Niram Ferretti ha fatto a Benny Morris, tra i maggiori esperti internazionali del conflitto arabo-israeliano. Ho trovato Morris un po’ ingrigito, un po’ intristito e molto pessimista sulle prospettive di pace in Israele. Che dire? È difficile obiettare a uno come Benny Morris, la superstar degli storici israeliani. Però io qualche dubbio su tanto pessimismo ce l’ho ed è di questo che vorrei parlare.
Premetto, da vecchio ingegnere, che per me i numeri fanno testo. Certo, i numeri vanno interpretati, ma nell’interpretazione c’è sempre qualcosa di soggettivo che mi insospettisce. Partiamo da Gerusalemme, per esempio. Su Gerusalemme ci sono alcuni numeri molto eloquenti che dovrebbero farci riflettere non solo sulla città ma anche sull’intera questione israelo-palestinese. Quando la città fu divisa in due parti, nel 1948, contava in tutto 165.000 abitanti, di cui circa 40.000 musulmani, 25.000 cristiani (quasi tutti arabi) e 100.000 ebrei. Tra il 1948 e il 1967 (data della riunificazione della città) la popolazione di Gerusalemme Ovest crebbe del 96%, quella di Gerusalemme Est occupata dalla Giordania di appena il 9%. Cosa accadde dopo il 1967? Dalla vulgata mediatica in molti avevamo capito che gli Israeliani brutti e cattivi tentassero in tutti i modi di scacciare i poveri Arabi da Gerusalemme. Invece scopriamo che nel ventennio 1967-1987 la popolazione araba di Gerusalemme aumentò del 121%. Un salto di 13 volte rispetto al 9% del ventennio precedente… Questo trend non solo è continuato negli anni successivi, ma si è ulteriormente rafforzato. Pensate che tra il 1987 e il 2015 la popolazione araba di Gerusalemme è aumentata di un altro 137%, mentre quella ebraica di solo il 54%. Su un totale di 320.000 Arabi che vivono a Gerusalemme (dato 2015), circa 50.000 sono cittadini di Israele, i rimanenti 270.000 hanno lo status di residenti i quali godono di uguali diritti civili rispetto ai cittadini (accesso a tutti i servizi disponibili per la cittadinanza, scuole, sanità, assistenza sociale, lavoro, trasporti, completa libertà di spostamenti in Israele) salvo quello del voto nelle elezioni politiche nazionali.
Guardiamo le cose da un’altra prospettiva: la popolazione ebraica di Gerusalemme che era nel 1967 il 73,5% del totale, nel 2015 aveva ridotto la sua incidenza al 62,1%. Secondo voi questi numeri cosa significano? Con Gerusalemme unificata sotto controllo israeliano gli Arabi stanno meglio o peggio rispetto ai tempi in cui erano governati dai confratelli Giordani? Poiché Israele si definisce Stato Ebraico, qualcuno potrebbe non essere così felice che la comunità araba della capitale dello Stato Ebraico ci si trovi così bene da continuare a crescere, ma non è di questo che stiamo discutendo.
Rimaniamo quindi sui numeri. Secondo dati dell’amministrazione gerosolimitana riportati nell’articolo “Migliaia di arabi di Gerusalemme chiedono la cittadinanza israeliana” pubblicato da Israele.net il 19 maggio 2019, nel periodo 2003-2016 ci sono state da parte di residenti arabi circa 15.000 richieste di cittadinanza, 100 al mese in media. Nel solo primo trimestre 2019 le richieste sono state 3.000, 1.000 al mese. Sembra che questa tendenza continui, come continua la crescita del numero di ragazzi arabi che scelgono di studiare in scuole e università ebraiche.
Questi fatti spingono ad approfondire come stanno effettivamente le cose. Prendiamo la ricerca “Arab-Jewish Relations in Israel 2003-2019” dì Sammy Smooha, sociologo tra i più famosi di Israele, che su questo tema parlò anche in una videoconferenza ADI nel 2021. La ricerca di Smooha riguarda i rapporti tra cittadini arabi e cittadini ebrei di Israele. Attenzione, i dati relativi ai cittadini non possono essere estesi ai residenti arabi di Gerusalemme, tuttavia forniscono informazioni sorprendenti che suggeriscono la messa in discussione di alcuni stereotipi sulla conflittualità interetnica in Israele. Il sondaggio effettuato nel 2019 dice infatti che il 77,4% dei cittadini arabi di Israele non ha alcuna intenzione di trasferirsi in un futuro eventuale stato palestinese, e il 71,2% desidera integrarsi nella società israeliana. Significativo anche lo spavento che i cittadini arabi del cosiddetto Triangolo (area della Galilea con forte maggioranza di popolazione araba) si presero nel maggio 2004 allorché l’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman propose di cedere il Triangolo in cambio di territori palestinesi dove erano presenti insediamenti ebraici. La percentuale di Arabi che desideravano integrarsi nella società israeliana schizzò all’83%. Alla domanda se la divisione di Gerusalemme in due città separate (Gerusalemme Ovest parte di Israele, Gerusalemme Est parte di un futuro stato di Palestina) rappresentasse una condizione per realizzare la pace, solo il 34% rispose positivamente. É da notare che nel 2003 la divisione di Gerusalemme era ritenuta conditio sine qua non di composizione del conflitto dal 61% dei cittadini arabi di Israele.
Ma le sorprese non finiscono qui. Cosa pensano i residenti arabi di Gerusalemme, che sono la parte direttamente in causa, sull’eventualità di un accordo tra Israele e ANP che porti nuovamente a dividere la città santa in una Gerusalemme Ovest israeliana e una Gerusalemme Est araba? Secondo i risultati di un sondaggio effettuato nel 2021 dal sito palestinese Shfa News su un campione di 1.200 Arabi residenti a Gerusalemme, il 93% dei rispondenti ha dichiarato che preferisce vivere in una Gerusalemme controllata da Israele piuttosto che dall’Autorità Nazionale Palestinese. Tuttavia i residenti arabi di Gerusalemme ci tengono a mantenere la propria identità palestinese. Infatti secondo un’altra ricerca condotta dal Palestine Center for Public Opinion solo il 21% vorrebbe la cittadinanza israeliana: pochi ma non pochissimi. Infine, sia i cittadini arabi di Israele che i residenti arabi di Gerusalemme sono convinti a grande maggioranza che la soluzione del conflitto sia quella dei due stati.
Ritorniamo al punto di partenza, il pessimismo di Benny Morris sulle possibilità di composizione del conflitto israelo-palestinese. D’accordo su quello che sta succedendo a Gerusalemme, potreste dire, ma cosa c’entra con il tema generale della pace riguardante Israele, West Bank e Gaza? Sono due cose ben diverse, giusto? Sbagliato. Il cambiamento di atteggiamenti dei residenti arabi di Gerusalemme e dei cittadini arabi di Israele è estremamente significativo anche per gli Arabi che vivono nei cosiddetti territori palestinesi. Vediamo perché.
C’è anzitutto un fattore comune di importanza capitale: il passare inarrestabile del tempo. Alcuni storici sono convinti che la memoria storica collettiva degli avvenimenti si riduca nel tempo con legge esponenziale, e che nel migliore dei casi non sopravviva oltre le 8 generazioni (circa 250 anni). La linea rossa del grafico allegato mostra come vanno le cose a intervalli di 30 anni (circa una generazione), dove α, il coefficiente di attenuazione, è posto pari a 0,50, ovvero ad ogni salto generazionale la memoria storica di una comunità si ridurrebbe del 50% rispetto alla generazione precedente. Secondo tale curva la memoria storica dei residenti arabi circa Gerusalemme Est negli anni ’60, ai bei tempi della dominazione giordana, è il 20% rispetto a fatti recenti. Poco, ma abbastanza per ricordare che nella Città Vecchia i vicoli in terra battuta si trasformavano con la pioggia in fiumi di fango, c’erano fogne a cielo aperto, scuole e ospedali non funzionavano mica tanto bene. E così via. Quanti Arabi rimpiangono i tempi di Gerusalemme Est? Provate a indovinare. Pensate che gli Arabi del West Bank ignorino la trasformazione che la vecchia Gerusalemme Est ha avuto da quando è diventata Gerusalemme e basta? Pensate che non sappiano che il 67% dei residenti arabi di Gerusalemme dichiara (dato 2017) un reddito mensile superiore a US$ 1,300 rispetto al 5% degli abitanti del West Bank?
Tutto questo non spiega però come mai la gente della West Bank pensi di votare in maggioranza per Hamas se e quando l’ANP indirà nuove elezioni, con ciò accentuando le difficoltà del processo di pace. La spiegazione è tuttavia banale. Guardiamo un attimo cosa è successo in Italia, paese lontano anni luce dal West Bank, negli ultimi 8 anni. Grande affermazione di Renzi nel 2014, trionfo di Grillo nel 2018, picco positivo delle intenzioni di voto per Salvini nel 2020, Draghi salvatore della Patria nel 2021, trionfo di Meloni nel 2022. In una situazione di crisi e di incertezza, anche in un paese democraticamente maturo come l’Italia la gente vagola a rampazzo dall’uno all’altro partito in cerca del demiurgo con la bacchetta magica. E cosa dovrebbero fare i poveri Palestinesi posti di fronte all’unica alternativa tra un’ANP marcia di corruzione fino al collo e Hamas che almeno mostra di volersi battere per i propri connazionali?
Si continuerà dunque a girare in tondo senza mai trovare una soluzione, come profetizza Benny Morris? Non c’è modo di cavalcare l’onda dei cambiamenti positivi in atto tra i due popoli, di cui Gerusalemme rappresenta lo snodo cruciale? E’ mai possibile che un popolo come quello ebraico, capace di vincere con lo 0,2% della popolazione mondiale il 20% dei premi Nobel (100 volte la media mondiale), non sia capace di inventarsi una soluzione? Il fatto è che occorre uscire dagli schemi tradizionali, la soluzione dei due stati non è più attuabile, un’annessione della West Bank tout court da parte di Israele meno che mai. Occorre pensare l’impensabile.
Il 18 settembre dopo Benny Morris salì sul palco Mordechai Kedar, personaggio assai noto in Israele, meno in Italia, che raccontò in modo molto coinvolgente la “teoria delle otto città stato palestinesi”, un approccio completamente nuovo a una possibile soluzione di pace, che probabilmente si ispira a temi sviluppati dallo storico ebreo Bernard Lewis in “Le molte identità del Medio Oriente”. Non sono in grado di esprimere un’opinione su quanto Kedar propone, ma penso che solo proposte rivoluzionarie – quella di Kedar lo è – potrebbero sciogliere il nodo.
La disponibilità a parlarsi c’è. Il testimone è nelle mani di Israele.