La lettera appello che Moni Ovadia ha scritto al sindaco di Milano Giuseppe Sala citando l’Informale è un sublime compendio di demagogia, pomposità, grottesco e mistificazione, tipici del repertorio dell’attore-autore italiano. Da anni, “non si sa a quale titolo”, Ovadia si è autoconvinto di incarnare una grande voce della coscienza civile di questo paese. Nel vuoto lasciato da Sciascia e Pasolini ha pensato bene di inserirsi lui.
Insignitosi della missione di difensore degli oppressi e delle vittime, Ovadia non cessa di mostrare la propria straordinaria generosità di cuore con selettiva partecipazione. Poiché è chiaro che egli non può abbracciare tutte le cause, ne sceglie una che funge da sineddoche, guarda caso quella del conflitto arabo-israeliano. Qui egli offre con sontuoso sperpero il solito consunto apparato della propaganda arabo-sovietica entrata in azione subito dopo la Guerra dei Sei Giorni e da allora mai cessata. Come tutti i travet dell’apparatčik, Ovadia ha scelto con passione di trasformarsi in un “parlato” rinunciando alla funzione di “parlante”.
Esamineremo ora l’esemplare testo di cui offriremo solo alcuni campioni significativi.
Mi permetto orgogliosamente di ricordarle, che sono ebreo per nascita, cittadino milanese da 68 anni, militante antifascista dall’età della ragione……In questi ultimi anni per avere sostenuto i diritti del popolo palestinese, ho ricevuto ogni sorta di spietati insulti e maledizioni, ci ho un po’ fatto il callo, ma se, ancorché indirettamente, l’istituzione della mia città si unisse al coro, il vulnus colpirebbe non me ma i valori della tradizione.
Essere ebrei per nascita purtroppo non garantisce nulla. Non è un abilitazione a rappresentare né meglio né peggio di chi è ebreo o non ebreo, la questione relativa al conflitto arabo-israeliano. Anche Otto Wenninger e Arthur Trebitsch erano ebrei come lo era la marcionita Simone Weil e lo sono oggi Shlomo Sand e Gilad Atzmon, due campioni di furente cupio dissolvi ebraico. Né il vittimismo e l’orgoglioso antifascismo (si attende da tempo anche una parallela dichiarazione di orgoglioso anticomunismo) possono, di per sé, rendere immuni dalle fole che l’attore diffonde con prodigalità da anni.
Il 25 Aprile ricorda e celebra sia la memoria della lotta contro la barbarie nazifascista, ma irradia anche un insegnamento e un monito che cammina di generazione in generazione: il dovere di opporsi ad ogni oppressione per liberare ogni popolo oppresso da chiunque ne sia l’oppressore.
Da incorniciare, contemplare e piangere. L’attesa della opposizione di Ovadia al governo di Maduro in Venezuela, alla teocrazia iraniana, al regime di Bashar Assad, a quello di Mugabe, il suo accorato appello contro il massacro dei cristiani in Medioriente ad opera dell’estremismo islamico e altre battaglie, non sono pervenuti. Come non sono pervenute le sue sentite rimostranze contro Cuba, sia all’epoca di Castro, sia attualmente, ma, come già detto, bisogna selezionare una causa che le rappresenti tutte.
Proseguiamo.
Per questa ragione, lo slogan più ripetuto nella manifestazione dell’antifascismo è “/Ora e sempre //Resistenza!/”, pertanto chiunque inalberi simboli che richiamano alla libertà e all’indipendenza dei popoli, è legittimo erede dei partigiani.
Da consumato cabotin, Ovadia sa come strappare l’applauso alla platea, soprattutto quella che gli fa da eco chamber. E questo pezzo di gigioneggiamento demagogico è da antologia. Ma veniamo al dunque. Quali sarebbero i “simboli che richiamano alla libertà e all’indipendenza dei popoli”? Naturalmente si tratta delle bandiere palestinesi.
L’”oppressione” palestinese da parte del “colonialismo sionista” è un inossidabile feticcio, l’ultimo rimasto agli ex rivoluzionari attempati, ai cheguevaristi e maoisti criogenizzati. Tutte le altre luchas de liberación sono fallite, è rimasta solo questa. Sottrargliela sarebbe un delitto imperdonabile, come portare via a un bambino il suo ultimo giocattolo, quello che ancora, irresistibilmente, lo tiene avvinto all’infanzia impedendogli di diventare adulto. Ma Ovadia e i suoi sodali hanno un serio problema con il principio di realtà. Non avendo mai letto Hobbes e avendo letto (forse) Lenin gli sfugge la fondamentale differenza tra ciò che è vero e ciò che è delirato.
La difesa del BDS è appassionata e perentoria. Non si può esimersi dal riportarla.
Signor Sindaco, io non mi permetto di chiederle di prendere posizione sul BDS,voglio solo sottoporle un’accorata sollecitazione a non prestarsi a legittimare un uso scellerato e strumentale dall’accusa di antisemitismo o di terrorismo contro BDS. L’unico scopo di tali falsità e quello di tappare la bocca, imbavagliare il pensiero e criminalizzare una militanza sacrosanta che si batte per i diritti di un popolo oppresso, i cui territori sono occupati, colonizzati da cinquantanni, le cui topografie esistenziali sono devastate, ai cui figli è negato il presente e il futuro, la cui gente è sottoposta a punizioni collettive e ad un autentico apartheid a causa del quale, i palestinesi subiscono un diuturno ed incessante stillicidio di vessazioni e patiscono la negazione sistematica della dignità sociale e personale.
Siamo qui nel plesso della menzogna piena, dentro il suo nucleo più profondo. Siamo nell’onirismo puro, all’autoaffatturazione brada. Si stagliano truffe semantiche di indubbia suggestione mistagogica, “popolo oppresso”, “colonizzazione”, “apartheid”, “stillicidio di vessazioni”. Sono formule che incantano, sono esercizi di “A me gli occhi” da guitto da piazza di mercato, da oratore di Hyde Park. La platea non si conquista citando Eschilo ma facendo cabaret. Ha funzionato sempre, continua a funzionare.
Ovadia racconta una distopia terribile, evoca implicitamente paralleli atroci (il “nazismo” di Israele, o perlomeno il suo fascismo, sono in filigrana). Si tratta di rappresentare una fabula ideologica senza alcun rapporto con la realtà. Un paese in cui vivono integrati un milione e mezzo di arabi che hanno accesso a molteplici professioni, sono rappresentati al governo, siedono alla Corte Suprema di Giustizia è esattamente uguale al regime di segregazione razziale del Sudafrica. Ma no, attenzione, egli parla dei territori oKKupati, dove, dopo gli Accordi di Oslo, firmati da uno dei suoi beniamini, il lord of terror, Yasser Arafat, l’Autorità Palestinese ha il pieno controllo dell’Area A e quello congiunto dell’Area B (dove l’ingresso ai cittadini israeliani è rigorosamente verboten). Ma no, Ovadia intende il Muro, ovvero la barriera di protezione che Israele ha fatto costruire per difendersi dagli attacchi suicidi degli “oppressi”, barriera che non avrebbe dovuto essere costruita in modo da permettere loro di continuare a farsi esplodere in nome di Allah.
Ma Ovadia di storia sa poco o nulla, quello che gli interessa è la narrazione. Al suo posto preferisce il canovaccio del romanzo criminale su Israele così in voga nella sinistra estrema e nell’estrema destra. E’ un racconto irresistibile. Nutre l’immaginazione di nemici necessari, li situa nella tenebra profonda e permette di nobilitarsi convincendosi di essere dalla parte della luce. Francesco Giordano, l’ex brigatista responsabile dell’omicidio Tobagi e fautore di un Fronte Palestina da tastiera, la pensa come lui. Chissà cosa prova Ovadia nell’incrociarlo sulla stessa strada che percorre.
Nell’accorato appello a Sala perché non discrimini il BDS (illegale in molti stati americani), una associazione che fa della discriminazione di Israele la sua ragione d’essere, l’attore-narratore cita come testimone contro Israele B’Tselem, la ONG su posizioni ancora più radicali delle sue, un’altra organizzazione vocata alla demonizzazione dello Stato ebraico e da tempo palesemente smascherata per l’inattendibilità e parzialità dei propri resoconti.
Siamo quasi giunti alla fine. Ancora un poco di pazienza.
Proprio in occasione delle recenti polemiche, la comunità ebraica romana in una sua nota, ne ha rispolverato a pappagallo una versione inventata dal talento di Bibi Netanyahu: “L’Anpi sceglie di cancellare la Storia e far sfilare gli eredi del Gran Muftì di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere…” (la Repubblica 20/04/2016). Ovvero, chi inalbera la bandiera palestinese, simbolo dell’identità e della dignità di un popolo oppresso, sarebbe erede del Gran Mufti di Gerusalemme del tempo della Seconda Guerra Mondiale, noto per le sue simpatie filonaziste. Questo argomento se non fosse una vigliaccata sarebbe ridicolo e patetico, tanto più se serve come scusa alle istituzioni della Comunità Ebraica romana per non partecipare alla manifestazione a cui ha pieno titolo ad esserci ma non contro l’aspirazione alla libertà e all’indipendenza del popolo palestinese.
Qui invece siamo al grottesco. Alla spudoratezza spinta all’iperbolico. Davvero l’insipienza di Ovadia è così macroscopica, o si tratta di pura malafede? L’alleanza tra Amin al Husseini, allora il più alto rappresentante in Palestina della causa araba con Adolf Hitler, la sua affettuosa corrispondenza con Heinrich Himmler, il suo offrirsi come volonterosa manodopera in Medioriente per ripulirlo dagli ebrei, sono fatti inequivocabili, incistati nella storia, e non i fondali di una recita da strada. Così come è inequivocabile l’adesione popolare araba (all’epoca i palestinesi non esistevano ancora) alle rivolte e ai pogrom organizzati dal Mufti. No, Bibi Netanyahu non centra. Comprendiamo l’avversione di Ovadia nei suoi confronti, ma l’odio gioca brutti scherzi. La linea di continuità ideologica è la medesima. Se l’attore, l’affabulatore pataccaro uscisse dal recinto intossicato delle sue fantasie e si prendesse la briga di studiare, imparerebbe che l’antisemitismo eliminazionista di importazione nazista dei Fratelli Musulmani sodali di Amin al Husseini si è giustapposto a quello coranico. Vedrebbe la linea di continuità ideologica che apparenta Hamas (costola palestinese della fratellanza) a Hezbollah. Vedrebbe la volontà dichiarata, esplicita, programmatica di restituire la Palestina al Dār al-Islām. Vedrebbe tante altre cose che non può vedere, che si impedisce programmaticamente di vedere, preferendo perpetrare una gigantesca frode gratificando il proprio io sul quale porre la corona di campione (selettivo) dei “diritti umani”.