Il post Netanyahu è, nei desiderata dell’Amministrazione Biden, lo scenario ideale per apparecchiare lo screditato e implausibile paradigma dello Stato palestinese, dopo che, per sedici anni, ne è sorto uno in miniatura a Gaza, con, come conseguenza ultima della sua ragione d’essere, il 7 ottobre 2023.
Fin dalla vittoria di Netanyahu, un anno fa, la Casa Bianca iniziò subito a palesare il proprio scontento per l’esito delle urne, così lontano dall’orizzonte progressista, bollando il nuovo esecutivo come un governo clericale ed estremista.
Joe Biden, “l’amico americano” tenne a debita distanza Netanyahu fino quando non fu costretto dagli eventi a recarsi in Israele dopo il peggiore eccidio di ebrei dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Prima, ingerendo come mai negli affari interni di uno Stato sovrano, Biden aveva fatto intendere chiaramente che a Washington la riforma della giustizia del nuovo governo non piaceva affatto. Ora si tratta di palesare il proprio scontento per la determinazione con la quale Netanyahu ha rigettato l’idea di una Gaza dopo Hamas governata dalla cleptocrazia filoterrorista di Fatah e soprattutto l’idea che uno Stato palestinese possa in qualche modo essere la formula giusta per placare l’odio viscerale che la parte più consistente della popolazione palestinese dei cosiddetti territori occupati nutre per Israele e non quello che sarebbe, un ulteriore trampolino di lancio per azioni terroristiche su scala maggiore.
L’opera di delegittimazione di Netanyahu è già cominciata, lo si considera un leader superato e si guarda oltre, ci hanno già pensato due ammiraglie della stampa liberal, il Washington Post e il New York Times a indicare l’aria che tira. Soprattutto il primo sostenendo che Netanyahu, come Nerone, gradirebbe incendiare il Libano per restare in sella.
Netanyahu è coriaceo, venderà cara la pelle, ma il fatto è che si trova stretto in una morsa a tenaglia. Da una parte c’è l’Amministrazione Biden che tramite Antony Blinken continua a esercitare fortissime pressioni sul gabinetto di guerra per condizionare l’operazione militare a Gaza affinché essa possa creare il minore impatto possibile oltreoceano e non erodere ulteriormente il già scarso consenso elettorale di cui gode Biden in vista delle prossime presidenziali, e ciò significa in termini concreti costringere Israele a incrementare gli aiuti umanitari a Gaza e a operazioni militari a intensità bassa, dall’altra c’è lo stesso apparato militare israeliano, il medesimo che ha mostrato la sua palese inadeguatezza nel prevenire il 7 ottobre, all’interno del quale operano da anni oppositori di Netanyahu per i quali la priorità non è più o forse non è mai stata lo smantellamento della struttura operativa di Hamas.
In questo senso sono emblematiche le dichiarazioni recenti di Gadi Eisenket, ex Capo di Stato Maggiore, e oggi soggetto politico, il quale ha affermato che l’obbiettivo di smantellare Hamas all’interno della Striscia non è fattibile e auspicando elezioni anticipate a guerra in corso, due affermazioni che di fatto consegnano a Hamas il vantaggio che spera di ottenere.
Dopo tre mesi di guerra, è palese che l’operazione militare israeliana a Gaza si trova al momento in una fase di assestamento. La sconfitta di Hamas è ancora lontana e solo una continua e serrata determinazione a perseguirla può portare al risultato sperato, mentre intorno a questo obiettivo il risucchio delle sabbie mobili si sta intensificando.