Un «processo di pace» presuppone che entrambe le parti coinvolte ritengano che la pace sia nel loro interesse nazionale. Ma non è il caso dei palestinesi, che rifiutano pervicacemente la pace con Israele, perché lo considerano un «pugnale conficcato nella Umma», «un cancro», un’ingiustizia «storica». Per questa ragione, tutti i presidenti e i segretari di stato hanno fallito nei loro tentativi di porre fine al conflitto tra israeliani e arabi.
Le organizzazioni politiche palestinesi, non solo Hamas e Jihad Islamica, ma anche l’Autorità Nazionale Palestinese, sono formate da fondamentalisti islamici, il cui odio per gli ebrei e lo Stato di Israele è inestinguibile. Il loro furore antiebraico è così intenso che sono disposti a morire per uccidere un ebreo, qualsiasi ebreo, non un ebreo specifico che in qualche modo potrebbe averli danneggiati.
I palestinesi vengono incitati a uccidere gli ebrei anche a rischio della loro vita. Nemmeno i nazisti arrivarono a tanto. Nessun ufficiale delle SS avrebbe mai ordinato a un soldato o a un civile tedesco di mettersi in pericolo pur di uccidere degli ebrei. Al culmine della seconda Intifada, il 65% dei cittadini palestinesi si diceva favorevole agli attentati suicidi contro i civili israeliani.
L’Autorità Palestinese intitola vie e piazze ai «martiri», ossia agli assassini di ebrei. Per le vie di Gaza o dei cosiddetti «territori occupati» si festeggia ogniqualvolta un terrorista arabo mette a segno un attentato. Nel luglio del 2016, un ragazzo palestinese di diciassette anni uccise a coltellate una ragazzina israeliana di tredici dopo essere penetrato, in piena notte, in casa sua. In Palestina si celebrò il fatto di sangue distribuendo caramelle e dolciumi per le strade; il giovane accoltellatore fu acclamato come «eroe».
Secondo alcuni, le azioni terroristiche, anche le più brutali e spietate, nascerebbero dalla frustrazione e dalla disperazione di vivere sotto l’«occupazione israeliana». Si tratta, però, di una menzogna. Il terrorismo palestinese è aumentato esponenzialmente tutte le volte che era in vista una possibile soluzione diplomatica, o comunque quando erano stati stretti accordi vantaggiosi per gli arabi.
La pace è stata rifiutata sia prima che dopo la creazione dello Stato d’Israele, prima e dopo la vittoria nella guerra dei Sei Giorni nel 1967, prima e dopo gli Accordi di Oslo del 1993 e lo sgombero di Gaza nel 2005. Dal settembre 2000, un mese dopo le trattative di Camp David fatte fallire da Arafat, al febbraio 2005, la seconda Intifada causò quasi 2000 vittime tra gli ebrei. Gaza, nel 2005, completamente liberata dalla presenza ebraica, divenne subito un avamposto jihadista fondato sull’implacabile volontà di uccidere gli ebrei e stabilire il califfato mondiale.
Inoltre, raramente si ricorda che, dal 1996, ossia in seguito all’accordo di Oslo 2, le truppe israeliane hanno sgomberato tutte le maggiori città palestinesi. Si tratta dei territori definiti «Territori A», che sono sotto completa giurisdizione palestinese. Insomma, il 98 per cento dei palestinesi, dal ’96, non vive sotto occupazione, ma si autogoverna con leggi proprie, con un suo parlamento, un suo sistema scolastico e sanitario, una sua stampa e tv. I palestinesi hanno dato vita a un regime autocratico, la cui ragion d’essere è imperniata sul rifiuto di Israele, dove persino i bambini crescono nel culto dei «martiri» e della guerra contro gli ebrei.
Si potrebbe obiettare che anche i giapponesi glorificarono il suicidio dei loro kamikaze lanciati contro le portaerei statunitensi. Dunque, se i giapponesi sono riusciti a stringere una pace e persino a diventare un solido alleato degli Stati Uniti, perché i palestinesi non dovrebbero cambiare rotta e fare la pace con Israele? La devozione fanatica all’uccisione del nemico non necessariamente impedisce la pace, ma bisogna fare un’altra considerazione circa la visione palestinese d’Israele.
A differenza dei nipponici durante la Seconda guerra mondiale, i palestinesi non riconoscono allo Stato ebraico alcuna legittimità. Vedono la nascita di Israele come un disastro, la chiamano «Nakba» e la commemorano ogni anno dal 1948; non riconoscono alcuno spazio legittimo alla patria ebraica, e tutti gli argomenti secondo cui gli ebrei sono stati nella Terra di Israele per 3000 anni o che gli ebrei hanno acquistato terreni per kibbutz e moshav non hanno alcun valore per coloro che ritengono quella regione parte di un’intangibile «comunità di musulmani» (Umma).
Credere, come fa la sinistra israeliana e quella occidentale, che sia possibile una pace duratura con gente convinta che Israele sia uno Stato illegittimo in quanto «ebraico», che ricorre all’uso di bombe-umane e di bambini soldato è quanto di più ingenuo si possa pensare.