Ero felice quando arrivò nelle librerie Il capro espiatorio. Israele e la crisi dell’Europa di Niram Ferretti. Il libro, che avevo potuto leggere in lieve anticipo rispetto alla data di uscita prevista, era una intelligente e serrata critica a ciò che sta corrodendo, dall’interno, la civiltà occidentale.
Ricordo vividamente che, arrivato alla fine del saggio, scritto in un italiano magistrale, provai il desiderio che i lettori potessero conoscere l’altro, inestimabile, aspetto del suo autore. Non solo il Ferretti «guerriero politico», apprezzato difensore dello stato ebraico e della civiltà europea, ma anche l’uomo gentile e paziente con il quale, negli ultimi anni, ho tenuto un dialogo costante sui grandi temi della vita e della filosofia.
Il mio desiderio, finalmente, si è realizzato con l’uscita del suo primo romanzo, edito dalla casa editrice Giuntina, intitolato La luce del Regno. Si tratta di un romanzo potente e triste, nel quale l’intimo e l’universale si alternano con equilibrio e dove s’incarna una visione del mondo tragica, ma imbevuta di biblica speranza. Il volume, toccante e agrodolce, ritmato e saturnino, incanta il lettore fin dalle primissime pagine. Ferretti narra le riflessioni sobrie e profonde del suo protagonista, lo storico dell’arte Mattia Almiti, eludendo completamente, cosa assai rara di questi tempi, il sentimentalismo e la sdolcinatezza.
Al centro del romanzo c’è il bilancio esistenziale di un uomo di cinquant’anni, stimato studioso di Rembrandt e frequentatore di raffinati salotti parigini ed eleganti gallerie londinesi. Il protagonista è dotato di una mente brillante e di un cuore incrinato da diversi lutti e fallimenti affettivi, che lo inducono a pensosi tête-à-têtes con sé stesso, con la sua storia familiare, la sua radice ebraica e la sua omosessualità – quest’ultima narrata senza sbavature omofile.
Con astuta e squisita delicatezza, Ferretti intreccia il mondo interiore della sua creatura letteraria con i pensieri sull’arte di Pavel Florenskij e Urs von Balthasar, coi versi della Commedia di Dante, che innervano tutto il libro, e con l’Alchimia. Ritorna più d’una volta sulla Torà, che parla ad Almiti soprattutto attraverso la voce del nonno, con le sue inscalfibili verità su Dio e sulla redenzione.
Per tutto il libro, Mattia Almiti, anche grazie all’aiuto di due nuove conoscenze, il giovane Balthasar Halévy e lo scrittore Georges Bernheim, tenta di sciogliere il nodo gordiano della propria identità ebraica. L’ebraismo, però, non è un fatto solo individuale, ma storico e metafisico. Un legame più forte del tempo che, insaziabile, inghiotte tutto ma non annulla niente. Nelle parole dell’autore: «Ognuno di noi è legato a chi si trova alle sue spalle. Sempre di più penso che il tempo sia un’immensa stratificazione di giacimenti, uno sopra l’altro, in cui, come in quelli geologici, ogni cosa è conservata, ma, al contrario di quelli, è mantenuta viva».
Il confronto in questione non può prescindere dalla Shoah e dal sadismo irragionevole dei suoi esecutori. Il nazismo, nel romanzo, e con esso gli orrori e gli escrementi dell’arte contemporanea, diventano manifestazioni della Tenebra, del Male che sempre nega la vita e l’uomo. Al contrario, l’ebraismo e la Bellezza, sono espressioni di quella forza luminosa che, fin dalle origini del cosmo, opera per far sbocciare la vita e dare forma all’informe.
Come certi testi cabalistici, anche il libro di Ferretti presenta diversi livelli di comprensione e significato. Le memorie del protagonista e quelle di un sopravvissuto a Treblinka, il passato e il presente, il nostro mondo e quello al di là, il divino e il demoniaco, la luce del regno e quella di Rembrandt, l’ordinario e l’assoluto, la terra natale e l’esilio. Ogni cosa è legata all’altra da nessi imponderabili: «Sì, l’insieme dei nessi, dei piani sovrapposti. Tutto quello che sfugge a una determinazione ultimativa. La presa predatoria che vorrebbe esaurire l’afferrabile. O l’altra presa predatoria, quella che vorrebbe piegare la realtà alla propria volontà».
Nel tempo della miscredenza e del materialismo più triviale, Niram Ferretti mette nella mani del lettore un’acuta riflessione sulla fede, la memoria e la mortalità. Il protagonista, con le sue meditazioni sull’arte e la quotidianità, l’amore e il tempo, le buone azioni e il peccato, senza mai trascurare il contatto costante con profondi pensatori del passato, esprime alcuni dei migliori aspetti della spiritualità ebraica tradizionale.
Quasi ogni frase si legge come un apoftegma. Tutto il testo riverbera di saggezza sulla condizione umana conquistata a fatica. In esso si manifesta quella che, con le parole dello scrittore Richard Millet, può essere definita «la gioia di aprir bocca alla luce dei secoli».
Il seguente articolo è in pubblicazione anche su Il Corriere israelitico
https://www.giuntina.it/catalogo/diaspora/la-luce-del-regno-825.html