Editoriali

Memoria e identità

In un suo recente contributo sul sito di Gariwo, Le diverse tappe della memoria, Anna Foa si interroga sul rapporto tra memoria e Shoah, memoria e genocidi. Pur affermando la specifica singolarità della Shoah, come un evento che “in quella forma non ha precedenti”, giunge poi ad affermare che, “man mano che la costruzione memoriale si innalza ed erige barriere intorno a sé, per meglio identificarsi, diventa criterio di differenziazione assoluto, dogma”. Ed è questo che dovrebbe fare problema poiché, così come specificato, la Shoah diventerebbe oggetto metafisico imparagonabile ad altri genocidi, perdendo il suo carattere di universalità.

A questo proposito Anna Foa cita Emile Fackenheim ed Elie Wiesel, due autori che, in maniera diversa, si sono affaticati per circoscrivere la Shoah in un unicum, (e insieme a loro andrebbe sicuramente citato anche Arthur Cohen). Ora, che la Shoah abbia anche la possibilità di essere interrogata filosoficamente e teologicamente, non può essere disconosciuto.

Una storiografia di impostazione rigorosamente positivista la quale ponesse come suo criterio interpretativo una ermeneutica dell’orizzontalità, in cui i fatti debbano essere unicamente considerati con il metro di un’oggettività empirica pura, è un mito ottocentesco. Non è necessario essere adepti di Foucault e di Derrida per coltivare questo sano disincanto. Dunque sì, lo storico che guardasse alla Shoah anche con una precomprensione metastorica è perfettamente legittimato a farlo. Metafisica, teologia? Perchè no? L’importante è la fedeltà ai fatti, alla loro manifestazione. Il valore universale della Shoah, perché dovrebbe essere privato di questa valenza?

La tensione intima che anima l’ebraismo è quella tra universale e particolare, dove, il particolare non si diluisce mai nell’universale e l’universale altro non è se non il riverbero diffuso di quello specifico particolare. Se così non fosse, nella prospettiva religiosa, il monoteismo, eredità data in sorte ad un popolo tramite una serie di alleanze ad esso rivolte esclusivamente, dovrebbe essere considerato come prerogativa gelosamente ebraica, cosa che, evidentemente non è.

Nel corso dell’articolo, interrogandosi sul presente, Anna Foa si chiede se “il valore della memoria della Shoah  come pilastro su cui si era ricostruito il mondo dopo Auschwitz” possa essere diminuito dal Covid 19 che essa qualifica  come “nuova catastrofe”. E già, con questo accostamento, avvertiamo che abbiamo superato una linea di confine. E’ possibile, infatti, accostare un genocidio senza precedenti per modalità, intenzionalità, caratteristiche, a una pandemia? Non abbiamo, forse, fatto un salto categoriale illecito? Ma se non lo abbiamo fatto allora non si vede per quale motivo limitarsi all’attualità cogente del Covid 19 e non accostare la Shoah alla deforestazione dell’Amazzonia, o, come fa altrove sul sito di Gariwo, Gabriele Nissim, all’innalzamento dei mari dovuto al cambiamento climatico? E perché, continuando su questa stessa linea, non accostarla alla morte, ogni anno, per denutrizione o malattia dei bambini in Africa?

E’ evidente che, inserendo la Shoah in questo ambito analogico, saltano le specificità e le singolarità, tutto si confonde, e ciò avviene perché non si è rispettata alcuna normativa tassonomica. Sorprende che l’istitutrice di questo accostamento non si renda conto della deriva implicita nella sua formulazione. La logica non consente deroghe.

Non solo. Proseguendo con il paragone tra Shoah e Covid 19 si arriva all’equiparazione dei negazionisti del genocidio ebraico con i “negazionisti” della pandemia. E già qui è istruttivo vedere come un termine specificamente coniato per identificare quegli autori e i loro seguaci che negano la realtà della Shoah, venga usato in senso sinonimico per un evento, il Covid 19, che non ha nulla in comune con il primo. Sì dirà, plasticità e scivolosità della lingua, in fondo non si usano già con disinvoltura termini come “campo di concentramento” e “lager”?Infatti, una parte del problema è questo. L’incapacità di designare con precisione qualcosa che non può essere paragonabile a qualcos’altro, se non in modo approssimativo.

Ma se la Shoah è, come frequentemente sottolineato da Yehuda Bauer, un avvenimento “senza precedenti”, allora, sottoscrivendo questa affermazione, nell’istituire paragoni con altri genocidi, lo si farà rimarcando inevitabilmente la peculiare imparagonabilità del genocidio ebraico. Come ha scritto Georges Bensoussan in L’Eredità di Auschwitz, Come ricordare?, “Non è tanto la carneficina in quanto tale, del resto, a essere senza precedenti, la Storia rigurgita di olocausti generali, quanto la sua radice ideologica”.

La memoria è soprattutto, e questo sembra sfuggire ad Anna Foa e a Gabriele Nissim che ad essa spesso si richiama, preservazione dell’identità, non suo disconoscimento o annacquamento. Non esiste memoria senza identità, a partire da quella personale, e non è necessario avere letto Bergson per saperlo, si tratta di una cognizione immediata, data dall’esperienza.

La storia è memoria, ed è archivio, e, in questo senso, è anche museo, così come ogni museo è una collezione di memorie nella forma di manufatti artistici o non, le quali, seppure sempre approssimativamente, ci permettono di metterci in rapporto con il passato. Ma mentre il passato museale è, di fatto, morto, quello che istituisce la memoria, in ambito ebraico in modo particolare ma non solo (ogni popolo attinge al proprio serbatoio di memoria storica per costituirsi in quanto tale), è un passato vivo, fatto di tradizione e conservazione, che si rinnova di generazione in generazione. La Shoah non sfugge a questa dinamica. Essa è patrimonio dell’umanità, e dunque universale in questo senso e solo in questo, ma è prima di tutto e innanzitutto, un evento catastrofico, il maggiore evento catastrofico all’interno della storia ebraica, e dunque della sua memoria. Affermarlo non significa disconoscere la portata di altri genocidi (e fare riferimento alle catastrofi naturali, ai terremoti, ai maremoti, alle pestilenze e alle carestie è categorialmente spurio ), o volersi elevare in cima alle sofferenze dell’umanità, ma serve per discernere, definire, preservare un’identità e la storia (memoria) di questa identità.

Necessità quanto mai impellente oggi, in cui, nel calderone dell’Umanità, di un nudo indistinto amorfo, presunti filantropi e aedi del progresso, tra cui il “messianico” George Soros, citato dalla Foa nel suo articolo, vorrebbero dissolverle.

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