La vittoria di Benjamin Netanyahu alle ultime elezioni in Israele non è stata accettata da un vasto contesto a lui avverso. Questo è il dato di base, il resto, per dirla col poeta, discende per li rami.
Il “problema” Netanyahu la sinistra sperava di averlo definitivamente risolto con le imputazioni a suo carico, corruzione e abuso di ufficio, e con i processi avviati, a cui aveva fatto da corollario, prima e dopo, una campagna di demonizzazione paragonabile solo a quella messa in atto negli Stati Uniti contro Donald Trump. Di fatto i frutti sono poi arrivati, per un periodo Netanyahu è uscito di scena ed è tornato sui banchi dell’opposizione. Il tentativo di renderlo perennemente ineleggibile, nonostante i processi a suo carico è però fallito, ma perlomeno si era riusciti a rimuoverlo dal premierato. Al governo si insedia dunque il 13 giugno del 2021 una coalizione eterogenea che imbarca l’imbarcabile da Lapid a Bennett fino a Ra’am, il partito arabo di Mansur Abbas. I peana sono tanti, si saluta entusiasti il sol dell’avvenire. Soprattutto è a Washington che giubilano, perchè è a Washington che bisogna gettare sempre lo sguardo relativamente alle conseguenze di ciò che si muove politicamente in Israele. Non è un mistero per nessuno che il rapporto indissolubile tra Israele e il suo alleato principale condiziona e ha condizionato il destino dello Stato ebraico dal suo sorgere fino ai nostri giorni, nel bene come nel male.
La vittoria di Netanyahu e le sue alleanze, di cui la componente più problematica è quella rappresentata da Benzalel Smotrich e Itmar Ben Gvir, entrambi a capo di due formazioni politiche ultranazionaliste, per Washington rappresentano un fastidio. Subito dopo le elezioni, dalla Casa Bianca arrivano infatti i primi commenti preoccupati, o meglio, i primi avvertimenti. Non ce ne fu nessuno quando si imbastì il governo a rotazione Bennett-Lapid, e non potevano esserci perchè quel governo era gradito all’amministrazione Biden. Il gradimento scende poi drammaticamente quando si insedia nuovamente Netanyahu. Il problema è che non ci si limita a questo, che è sostanzialmente prevedibile, visto che la nuova realtà politica israeliana è ideologicamente non omogenea a quella in carica negli Stati Uniti, si va oltre. Cosa accade? In visita a Gerusalemme il 30 gennaio scorso, il Segretario di Stato, Antony Blinken in conferenza stampa con Netanyahu, irritualmente tocca un tema che riguarda la politica interna del paese, ovvero l’annunciata riforma del sistema giudiziario. Le parole di Blinken sono circonfuse di irenismo: bisogna evitare i contrasti e creare intorno alla riforma il consenso più ampio. A tutti è chiaro cosa è sottinteso, una riforma unilateale non incontrerà il plauso della Casa Bianca. La Casa Bianca non dovrebbe occuparsi di una riforma che riguarda la politica interna di uno Stato sovrano, ma invece, nel caso di Israele, lo fa eccome.
A monte di questo sommovimento c’è un potere, quello giudiziario, che la Corte Suprema incarna nella sua massima espressione e che, nel corso degli ultimi trent’anni è diventato, nelle parole di Amnon Rubinstein, giurista insigne e tra i fautori delle due leggi base di Israele a tutela dei diritti umani, “Uno Stato nello Stato”. Di questo potere e del suo principlae demiurgo, abbiamo dato ampio riscontrohttp://www.linformale.eu/il-giudice-demiurgo-e-il-vulnus-alla-democrazia/ .
Nel frattempo 120 accademici israelaini tra cui il premio Nobel, Yisrael Aumann, sottoscrivono un appello a favore della riforma del governo indicandone la necessità: “La violazione dell’equilibrio tra i rami del governo e l’aumento del potere dell’Alta Corte sono stati compiuti attraverso vari strumenti, tra cui il controllo giurisdizionale sulla legislazione primaria, compresa la sua estensione alle leggi fondamentali, l’ampliamento del diritto alla legittimazione, l’ampliamento della dottrina di giustiziabilità e del criterio di ragionevolezza, l’uso dell’interpretazione oggettiva della legge e aumentando notevolmente l’autorità dei consulenti legali del governo “
Per la prima volta il potere giudiziaro israeliano plasmato negli anni secondo l’indirizzo di Aharon Barak, si trova davvero in difficoltà, la riforma della giustizia annunciata spesso e mai varata ora sembra che sia davvero in procinto di manifestarsi. L’intervento che prevede è drastico, si tratta di un dispositivo che destruttura in modo dirompente lo “Stato nello Stato” di cui parla Rubinstein, ovvero il ramo giudiziario che si è sostituito, vampirizzandoli, al legislativo e all’esecutivo.
Iniziano a muoversi le piazze, sempre più folte. La parola d’ordine è che l’attuale governo attenti alla democrazia, che la riforma della giustizia che si sta attuando, porterà Israele in un abisso. I toni sono sguaiati, enfatici, apocalittici. Si paventa il crollo verticale dello Stato, Benny Gantz, già Capo di Stato Maggiore evoca la guerra civile se il governo non si fermerà, si arriva al punto da prospettare un collasso finanziario del paese. Se si riformerà la giustizia da Israele fuggiranno i capitali. Un gruppo di economisti scrive una lettera in cui dichiara che se la riforma dovesse passare ci sarà “un prosciugamento di cervelli” dal paese, interviene persino Fitch, l’agenzia di rating americana, affermando che alcuni paesi (senza specificare quali) “Che hanno approvato importanti riforme istituzionali riducendo i controlli e gli equilibri istituzionali hanno visto un significativo indebolimento degli indicatori di governance della Banca mondiale (WBGI), gli indicatori più influenti nel nostro modello di rating sovrano (SRM)”, aggiungendo tuttavia che, “Non è chiaro in questa fase se le riforme proposte in Israele avrebbero un impatto altrettanto ampio”. Non solo non è chiaro, non vi è tra l’una e l’altra cosa alcun nesso di causalità, ma ciò che conta è quanto affermato nell’esordio, ipotizzarlo, creare la prospettiva della sua eventualità. Il clima di intimidazione in corso è parossistico, senza precedenti.
L’estesa rete degli avversatori della riforma è potente e agguerritissima, può contare sull’appoggio della Casa Bianca nonchè su quasi tutto il comparto mediatico-accademico israeliano, sulle sparse ed efficientissime ONG che da anni lavorano all’interno di Israele per minarne la credibilità internazionale, e su una parte consisistente dell’esercito, nonchè, come è ovvio, sulla corporatività quasi unanime della magistratura. La guerra civile evocata irresesponsabilmente da Benny Ganz è già in atto. Gli oppositori alla riforma vogliono che abortisca, non fanno sconti, è in gioco troppo, un potere consolidato e fortissimamente radicato che non ha nessuna intenzione di rinunciare alle sue prerogative.
E’ la dimostrazione che la riforma è urgente e indispensabile. Se l’esecutivo riuscirà a tenere botta fino alla fine, è tutto da vedere.