Lo scrittore marocchino lo ha ripetuto anche stavolta, in un’intervista per la trasmissione Mediterraneo andata in onda su Rai 3 il 28 gennaio scorso: «L’infelicità araba risale al 1948, alla nascita dello Stato d’Israele, con il furto delle terre e le condizioni di prigionia in cui è tenuto il popolo palestinese».
Tahar Ben Jelloun ancora una volta comunica con sguardo malinconico e vellutatamente irato la menzogna che da cent’anni accompagna il mondo arabo nelle sue guerre contro Israele, nel suo odio, nel suo rifiuto.
Egli non ammetterebbe mai che la scusa scellerata con cui le masse islamiche sono state e sono ancora oggi tenute sì nell’infelicità e nella sua pietrificazione corrisponda al proclama che l’ex maestro di scuola Julius Streicher, leader del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, Gauleiter di Franconia ed editore del violento foglio antisemita Der Stürmer, rivolgeva al malcontento popolare e all’algida abnegazione ariana delle aristocratiche adoratrici del Führer: «Die Juden sind unser Unglück». Gli ebrei sono la nostra disgrazia, la nostra infelicità.
No. Per carità. Tahar Ben Jelloun scrive libri per spiegare a sua figlia il razzismo e il suo male. E il terrorismo. Persino l’antisemitismo. Tra una duna e l’altra dei suoi romanzi, della sua poesia, della sua ricerca dei volti, della differenza, del rispetto della condizione umana, non si sognerebbe mai di vedere accostato il suo pensiero sull’infelicità araba a quello propalato da “l’Assaltatore”, il settimanale dove lo sbaraglio della Germania, le sue responsabilità, le sue mortali illusioni e colpevolezze, i suoi torti, venivano trincerati nell’accusa agli ebrei di essere la disgrazia, i predatori dell’anima, della lingua, del suolo tedeschi. Eppure è così.
Quale perduta felicità araba poteva esserci, per esempio, nella seconda metà dell’Ottocento, quando Mark Twain visitò quella che allora veniva chiamata Palestina e scrisse: «La Palestina siede su sacchi di cenere, desolata e brutta. Non abbiamo mai visto un essere umano sulla strada. Persino gli ulivi e i cactus, quegli amici sicuri di un terreno incolto, hanno per lo più abbandonato il Paese». E quale felicità fervida, sofferta, ricolma di tikvà, di speranza, e di avodà, di lavoro, non animava invece il cammino, non muoveva la mano dei Hovevei Sion, degli amanti di Sion, dei pionieri guidati dal medico Judah Leib-Leon Pinsker, che a quella terra, resa desolata e povera nei secoli dalle dominazioni, restituivano con consapevolezza e memoria le sue radici, la sua florida bellezza ospitale, ricongiungendosi agli ebrei mai partiti da lì nelle generazioni, mai separati dalla terra d’Israele dove vivevano e testimoniavano la propria esistenza fra gli stenti, fra le devastazioni e le conquiste altrui, aspettando il ritorno del proprio popolo, di una promessa mai sopita nel dolore, nella persecuzione, nello sterminio.
E furono quelli, semmai, a mano a mano, la felicità, il lavoro e il vivere ebraico che attirarono la maggior parte degli arabi palestinesi, che oggi rappresentano, agli occhi di un mondo cieco e degli esegeti dell’infelicità araba come Tahar Ben Jelloun, il corpo mistico della lotta contro Israele, l’ebreo fra gli stati, e del sogno empio del suo non esistere.
Tahar Ben Jelloun non lo ammetterebbe mai, ma con il suo malinconico sguardo di velluto che cela l’ira e il rifiuto, ripetendo l’idea che l’infelicità araba sia da ricondurre alla fondazione dello Stato d’Israele, egli ricalca lo slogan di Julius Streicher: «Gli ebrei sono la nostra infelicità». E in questa che in spagnolo si chiama mentira, in questa menzogna che da cent’anni accompagna la ragion d’essere, l’ostilità, il distruttivo fuoco arabo incapace di aprirsi una strada vitale all’interno di se stesso, nella propria vera storia di dominio, conquista e perdita e nel futuro, c’è la verità espressa così dalla Lega Araba all’indomani del Piano di partizione approvato dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1947: «Non accetteremo mai di dividere la terra con la natura corrotta della razza giudaica, che ha costretto le nazioni civili d’Europa, prima fra tutte la Germania, a espellerla e sterminarla».
Tahar Ben Jelloun non lo riconoscerebbe mai, ma la sua analisi dell’infelicità araba, che ha storicamente cause e ragioni ben diverse da quelle propugnate dalla mistica hitleriana del popolo arabo-palestinese autoctono, si inscrive in quella dichiarazione che era, a sua volta, il frutto malevolo di una predicazione coranica antigiudaica che solo quando fu messa da parte a favore di apertura, collaborazione e autentico rispetto della diversità e dignità umane diede temporaneo e isolato splendore all’Islam, e che nella guerra contro Israele ha trovato il suo fondamento attuale, sciagurato, con un vocabolario di sicuro paragonabile ai passi dello Stürmer per i quali Streicher venne condannato a Norimberga come autore di crimini contro l’umanità e che pure farebbero inorridire lo scrittore di Fès: «Se il pericolo della riproduzione di questa maledizione di Dio incarnata nel sangue giudeo deve finalmente terminare, esiste una sola soluzione, lo sterminio di queste persone delle quali il demonio è padre. Chiunque sia e qualunque cosa faccia un ebreo è una canaglia e un criminale e chiunque lo segua merita la stessa fine, annientamento, morte».
Sì, c’è del vero nella mentira, nella menzogna di Tahar Ben Jelloun. L’infelicità araba non nasce affatto con lo Stato d’Israele, ma la negazione dell’ebreo fra gli stati la rigenera, fortifica, la trasforma nella prigione di dura nera pietra che lo scrittore maghrebino accusa Israele di avere costruito intorno alle ambizioni degli arabi palestinesi. E se Franz Kafka, l’ebreo d’aria, ci ha insegnato che scrivere non è mentire, quali verità allora può sondare, portare alla luce con i suoi romanzi, con la sua poesia, tra le dune di sabbia, d’oro e d’ombre della sua scrittura, qualcuno che ancora oggi ripete, tra le righe di un discorso elegantemente antirazzista e nel proclama suadente di quale sia l’infelicità araba, che Israele, l’ebreo fra gli stati, è “la nostra disgrazia, la nostra infelicità”?