Editoriali

L’indebolimento occidentale

“Non è chiaro cosa abbiano guadagnato gli Stati Uniti con il ritiro della piccola, economica ed efficace forza deterrente rimasta in Afghanistan a sostengno delle forze di sicurezza. È inquietantemente ovvio ciò che abbiamo perso: prestigio nazionale, ingenti somme di capitale politico, credibilità sulla scena mondiale e, cosa più tangibile, la nostra sicurezza. Il mondo è molto più pericoloso oggi di quanto lo fosse solo 72 ore fa”.

Così scrive Noah Rothman oggi su Commentary. La disfatta americana dall’Afghanistan, dopo un impegno durato vent’anni, il dispiegamento di enormi risorse economiche e la perdità di soldati, è una di quelle evidenze che si impongono in modo perentorio. Ma la disfatta americana non è solo degli Stati Uniti, si porta dietro l’idea fasulla e illusoria che l’Occidente possa impiantare i suoi valori in un mondo a loro refrattario e che li ha infine rigettati.

«Volevamo costruire un Paese dotato di una struttura democratica, non ci siamo riusciti. Non c’è stato alcun collegamento tra le forze armate afgane e il popolo, non ha funzionato come pensavamo». Così ha dichiarato Angela Merkel, a certificare il fallimento dell’esportazione della democrazia, ovvero del trapianto di una pianta che non può fiorire in un terreno a lei avverso, nonostante fertilizzanti e irrigazioni. La pianta che invece è cresciuta e nel frattempo si è irrobustita è quella talebana. Gli sconfitti oggi hanno preso il sopravvento, l’Emirato islamico rinasce dalle sue ceneri e l’Afghanistan si appresta a diventare un punto di riferimento per il jihadismo sparso in Asia, Africa, Pakistan, Medioriente, Filippine. Coloro che combattono perchè si imponga sugli infedeli il dettato coranico voluto da Maometto potranno contare ora che il sogno califfale di Al Baghdadi sembra tramontato, sul suo sostituto afghano, più provinciale e limitato, ma non per questo meno efficace nel promuovere l’Islam nella sua vocazione più rigorista e letterale. 

Tuttavia il fallimento dell’esportazione della democrazia non significa che bisogna rinunciare a sostenere un governo che, per quanto corrotto e debole, rappresentava un argine agli estremisti.

Gli Stati Uniti si ritirano ottenendo il vantaggio di portare a casa i pochi soldati rimasti e di non continuare più a immettere denaro per finanziare una impresa fallita (mentre continuano a farlo in Medioriente con l’Autorità Palestinese, a cui l’amministrazione Biden ha ripreso a versare soldi), ma lasciando così il campo aperto al crescere di forze avverse e al probabile ingresso della Cina, la quale vede nell’Afghanistan il secondo lato del triangolo che ha nel terzo il Pakistan e al vertice se stessa. 

Il disimpegno americano in Afghanistan è un’ulteriore tappa della linea d’azione intrapresa dall’amministrazione Obama e da quella Trump e che è riassumibile nella rinuncia a inviare corpi combattenti all’estero in luoghi ignoti alla maggioranza degli americani e assai poco lucrosi per i vantaggi elettorali. Ma là dove una forza arretra, un’altra avanza, così è stato in Siria (dove gli Stati Uniti sono stati presenti marginalmente), in Iraq e ora in Afghanistan. Si tratta di forze ostili alla costellazione occidentale nella sua globalità e di cui, gli Stati Uniti, dalla  fine della Prima guerra mondiale hanno progressivamente rappresentato il vertice e la garanzia. 

L’11 settembre insegna che là dove ci si crede trincerati nella propria sicurezza domestica ci si può scoprire improvvisamente enormemente vulnerabili. Quando il paese più potente dell’Occidente rinuncia a tutelarla fuori dalle proprie mura non indebolisce solo se stesso ma anche i suoi alleati.   

 

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