Islam e Islamismo

L’inabissamento

E ci sarà qualcuno, ci sarà, ci sarà, che ci dirà che è l’Occidente il responsabile di quanto accaduto a Parigi, il massacro più grande dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ci saranno forse un Cardini, o un Chomsky, che ci spiegherà che la Francia (ex imperialista e colonialista) paga per il suo passato e soprattutto per il suo presente, il coinvolgimento in Siria. Ci sarà di nuovo la persistente cortina di fumo sulla realtà, sulle cose da chiamare con il loro nome, ma nonostante ciò, la realtà, come sempre fa, si imporrà.

Siamo in guerra e lo siamo da decenni, da prima dell’11 settembre, che è stato solo l’acme di una lunga gestazione, di un odio protratto e coltivato verso l’occidente e i nostri valori, quelli di cui noi stessi abbiamo fatto progressivamente strame. Siamo in guerra, come Oriana, la nostra indomita e passionale Oriana aveva capito anni fa, venendo additata all’epoca come un’appestata, una fumantina lunatica senile. Ma basterebbe leggersi i testi di Sayyd Qutb, basterebbe entrare con fiducia nel Corano, basterebbe rileggersi quello che Levi Strauss scriveva nel ’54 in “Tristi Tropici” a proposito dell’Islam, o quello che ne scriveva nello stesso anno Bernard Lewis, Basterebbe conoscere la storia di Israele e il tentativo protratto di distruggerlo da parte araba innestando sul nazionalismo la religione, come fecero Amin al Husseini e Hasan Al Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani.

Israele, l’Islam, il sangue versato a Parigi, i terroristi musulmani che si sono fatti saltare per aria l’altro ieri a Beirut uccidendo 126 persone (e il numero sale di ora in ora), il “fratricidio” protratto tra sciiti e sunniti che dura dalla morte del Profeta. Fatti eterogenei? no. Facce del medesimo prisma. Un prisma di violenza e odio puro inscenato in modo diverso, diversamente declinato. Tutto è collegato, e tutto parte da una patogenesi, dal dispositivo combinato di religione e suprematismo, da antioccidentalismo e antisemitismo, dalla frustrazione covata e coltivata di non essere più da secoli attori principali sulla scena del mondo, da sogni deliranti di restaurazioni califfali ed egemonie culturali e sociali estese a tutti in nome di codici legali fissati nel VII secolo. Ma ci vuole il dialogo. Sì, ci dicono. Ci vuole il dialogo per capire le ragioni di chi ammazza in nome di Allah, ci vuole il dialogo nel salottino di Michele Serra, sdraiati sull’amaca per capire la ragione per cui gli ebrei sono considerati “figli di scimmie e di maiali”, ci vuole il dialogo, come probabilmente ci sarebbe voluto il dialogo per capire le ragioni di Adolf Hitler. Questo ci chiedono e ci viene chiesto. La mano protesa verso gli assassini e i fanatici, animati dalla nostra buona fede, della nostra sensibilità fatta di comprensione ed ecumenismo, di moralità ebraica e cristiana, la stessa che fa scrivere ad Amos Oz una dedica accorata al plurimocida Baraghouti, il quale in carcere sconta le sue prigioni. Siamo al dissolvimento della ragione, è l’arretrare di fronte a ciò che disturba e non si vuol vedere. Il marcio che purulento è insediato dentro una deriva del pensiero, dentro un mondo nutrito di arcaismo, di violenza, di tribalismo, di un orgoglio feroce e sempre più feroce in quanto non più al centro della scena come primo attore e distributore di dhimmitudine agli inferiori ebrei e cristiani (i più perseguitati oggi nel mondo e non da shintoisti, animisti, o buddisti, no).

La Francia paga lo scotto del fallimento della sua religio laica fondata sulla trinità della fraternità, dell’eguaglianza e della libertà. Il fallimento dell’idea illuminista di una societé universelle multiculturale e coesa, un’utopia più deragliata di qualsiasi altra partorita. Paga lo scotto del proprio declino nazionalista, della rescissione delle sue radici cristiane, del proprio arretramento di fronte al razzismo clanistico degli adepti dell’Umma e della Sharia. La Francia, da cui la comunità ebraica, una delle più vecchie d’Europa, si sta progressivamente staccando per emigrare in Israele, dove pur nelle condizioni sempre precarie dello stato ebraico si può essere ebrei senza timore.

I morti di Parigi oggi, saranno quelli di domani, saranno quelli inevitabili di uno scontro frontale che non cesserà. Israele è lì, per noi, per ognuno a testimoniare questa inevitabilità, senza finzioni, senza abbellimenti. I morti di Parigi sono quelli della Seconda Intifada, prima del cosiddetto muro dell”apartheid” di propaganda palestinista. Sono i morti nati dentro un’idea di società e di storia conquistata a un prezzo abnorme. Quella società e quella storia che i nostri nemici vogliono distruggere e che noi dobbiamo, ostinatamente, ad ogni costo difendere.

Nella foto: la prima pagina di Libération

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