Basterebbe rileggersi il testo del discorso pronunciato da Barack Obama il 4 giugno del 2009 all’università del Cairo, per rinvenire in esso la road map della sua politica Mediorientale, del suo atteggiamento nei confronti dell’Islam e della concezione politica estera che ha connotato questa amministrazione negli otto anni del suo ufficio. Il discorso del Cairo è infatti un vero e proprio manifesto programmatico della visione del mondo del presidente americano, tutta incardinata sul presupposto dell’irenismo, della pacificazione da conseguire attraverso la via maestra della diplomazia e della negoziazione, quali supremi cocchieri a guida delle magnifiche sorti progressive.
Il mondo disegnato nella fiction del Cairo, rivolto principalmente ad un pubblico musulmano, è un luogo fatto di interrelazione, tolleranza, reciprocità, dove Oriente e Occidente si compenetrano armoniosamente riconoscendosi mutualmente dipendenti, reciprocamente debitori uno dell’altro in una fusione multiculturale e multietnica che è anche suprema ars combinatoria di pensieri diversi reciprocamente conviventi in un agape delle idee. Così, l’immagine di Thomas Jefferson, che nella propria biblioteca custodiva una copia del Corano, si sovrappone a quella fantastorica di un Islam che “ha sempre fatto parte della storia americana” poiché, “la prima nazione a riconoscere il mio paese fu il Marocco”. Immagine che, a sua volta, si sovrappone a quella di “un afro-americano di nome Barack Hussein Obama” eletto presidente di un paese a dominanza bianca in cui è costruita una moschea “in ogni stato dell’unione”. In questo paesaggio, l’Islam è soprattutto luce, lux orientis che avrebbe addirittura pavimentato la strada al Rinascimento italiano e, ovviamente, al Secolo dei Lumi. Erasmo e Montaigne, Voltaire e Hume debitori di Maometto. Lo avessero saputo.
Certo, nel discorso del Cairo, Obama si riferisce agli “Estremisti violenti” musulmani i quali poco hanno a che vedere con una religione che in realtà è intrinsecamente, umanisticamente, dalla parte del progresso, poiché, e qui la citazione è quella canonicamente usurata dei citatori ad usum delphini, “Il santo Corano insegna che chiunque uccide un innocente è come se avesse ucciso l’intera umanità e chiunque salva un innocente è come se avesse salvato l’intera umanità“. Citazione abbreviata, e che letta nel contesto coranico originario significa tuttavia altro, ovvero che quando una persona si rende colpevole di omicidio o si tratta di qualcuno il quale invita alla sedizione, allora ucciderlo è un dovere, (si intendono qui tutti gli infedeli), mentre l’uccisione di un musulmano da parte di un altro musulmano è sinonimo di uccidere l’umanità intera. Che Obama pronunciasse questa frase come esempio della natura intrinsecamente benevola dell’Islam davanti a un pubblico per la maggior parte perfettamente consapevole del suo significato reale rende bene la misura grande della svista, a pensar bene, o di una dissociazione intenzionale dal testo, a pensare male. Ed è questo il problema assai grave e che inficia tutto l’impianto di quel ormai celebre discorso, magnificato dagli aedi e dai flabelliferi di corte come un esempio scintillante della nobiltà della visione obamiana, della sua altezza morale. Visione in cui il clangore della guerra, i passi ferrati di Marte, l’irriducibile alterità delle idee, gli incomponibili contrasti risolvibili solo attraverso l’uso persuasivo della forza, sono espunti come arcaismi, relitti di un mondo tribale ormai alle spalle, poiché nella nuova era in cui, “L’Islam non è una parte del problema nel combattere l’estremismo violento ma è una parte importante nel promuovere la pace”, si può solo citare Thomas Jefferson e affermare che “Meno usiamo il nostro potere più grande diventerà”.
I capisaldi della ideologia obamiana sono qui riassunti, un Islam pacifico e intrinsecamente estraneo alla violenza e un soft power diplomaticamente esercitato in virtù del quale i lupi perderanno il vizio insieme al pelo e le spade, con pazienza, si trasformeranno in vomeri. E Israele? Israele è un capitolo importante del discorso del Cairo. Obama gli riserva spazio ampio. Ricorda la Shoah, le sofferenze ebraiche, il legame profondo tra gli Stati Uniti e lo stato ebraico, e poi passa a enumerare la sofferenza palestinese, i campi profughi, le umiliazioni prodotte sulla popolazione dall’occupazione militare israeliana, equipara, invita alle reciproche responsabilità. Si dimentica di dire qual è la causa dei campi profughi, chi li abbia voluti e strumentalmente mantenuti, così come omette di dire che l’occupazione non ci sarebbe stata se nel 1967 Israele non fosse stato attaccato per essere distrutto e avesse poi vinto ‘miracolosamente” quella guerra. Non può dirlo, naturalmente. L’audience a cui si rivolge non lo permette. E’ al mondo islamico che Obama parla, è bene ricordarlo.
Israele è solo una parentesi. Quello che però dice dopo avere affermato che la violenza palestinese non porta da nessuna parte e che Hamas deve riconoscere a Israele il diritto all’esistenza e che gli insediamenti ebraici devono fermarsi. Ed eccoci a oggi, alla risoluzione 2334 votata all’ONU con il significativo assenso americano, la risoluzione che ribadisce l’illegalità degli insediamenti in Giudea e Samaria dove la presenza ebraica non è mai venuta meno nel corso della storia salvo una breve parentesi durante il periodo dell’impero ottomano, risoluzione perniciosa la quale estende l’illegalità della presenza ebraica a Gerusalemme est, al quartiere ebraico, al Muro del Pianto. Risoluzione che attiva tutto il vasto dispositivo di ritorsioni e discriminazioni nei confronti di Israele in nome di una legalità distorta ed asservita a evidenti interessi di parte. Fu Patrick Moynihan, ambasciatore americano all’ONU negli anni ’70, a scrivere nelle sue memorie del suo stupore nell’appurare che Israele fosse “il fulcro della vita politica della Nazioni Unite”. Gli insediamenti ebraici devono fermarsi. Hamas non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele, come non lo fece mai l’OLP né lo ha mai fatto l’Autorità Palestinese. La volontà omicida del primo è scritta nero su bianco sulla propria Carta, quella di Fatah si è espressa più volte verbalmente incitando alla violenza ed al martirio in nome di quell’estremismo che nella visione obamiana del Cairo doveva essere superato dallo stesso Islam in grado di automedicarsi, tuttavia sono gli insediamenti ebraici che devono fermarsi. Solo così si avvierà il processo di riforma, il nuovo Medioriente del futuro, senza più il bubbone purulento del conflitto arabo-israeliano.
Il discorso del Cairo era ed è la prova di un fallimento ideologico totale e di una partigianeria mascherata da ecumenismo, da grandezza morale, da amichevole vicinanza. E’ il travestimento di un dilettante astuto ma dal fiato corto, come tutti coloro i quali disconoscono la realtà in nome delle loro astrazioni, dei desideri, dei miraggi. Il fiato corto di chi ha lasciato un Medioriente orfano di un disegno definito, dopo avere applaudito al Cairo la presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani, riabilitato un regime criminale, abbandonato la Siria al suo destino, e lasciato l’Islam come è sempre stato, un magma ribollente di tensioni.