Ebraismo

L’essenza dell’ebraismo non è l’Esilio

È sconcertante, per malafede e grossolanità teorica, il recente scritto di Giorgio Agamben su Giudaismo ed esilio. Nel breve testo, programmaticamente intitolato La fine del Giudaismo, il filosofo propone un’interpretazione discutibile del Sionismo e del suo rapporto con l’Ebraismo. 

Secondo quanto scritto da Agamben, il Sionismo costituirebbe una «negazione» dell’identità ebraica e della Galut, ossia dell’esilio. Il filosofo parla di «doppia negazione» ma, a ben vedere, si tratta di una sola, dato che l’ebraicità e l’esilio sono presentati come elementi simbiotici, ed è proprio questo l’errore fondamentale che inficia tutto il suo discorso. 

Se la Diaspora ha certamente segnato il destino del popolo ebraico, a cui ogni stabilità è stata a lungo preclusa, l’ebraismo non ha mai implicato «l’accettazione senza riserve dell’esilio» né questo può essere definito, come fa il filosofo, «la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra». L’esilio da Eretz Israel è sempre stato vissuto come una condizione di doloroso sradicamento. 

Gli Ebrei, salvo quelli che hanno resistito come ostinata minoranza nella loro terra d’origine, non smisero mai di rivolgersi costantemente verso il Monte del Tempio di Gerusalemme, pregando e sperando di tornare, promettendosi l’un l’altro: «l’anno prossimo a Gerusalemme» e ammonendosi con il verso «se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra». 

Proprio tra gli Ebrei dell’Europa centro-orientale, costretti a mantenersi in equilibrio fra confini mutevoli e governanti ostili, il Sionismo attecchì maggiormente e in profondità. Theodor Herzl veniva accolto come un nuovo Mosè nei ghetti dell’Ucraina e della Polonia. Il Sionismo ha rappresentato per gli ebrei diasporici la speranza di un’esistenza pienamente ebraica, lo stesso Herzl, pur da uomo laico, nel suo discorso d’apertura al primo Congresso, dichiarò: «Sionismo significa ritorno al giudaismo prima che ritorno al Paese degli ebrei». 

Uno dei più importanti pensatori ebrei del secolo scorso, Gershom Scholem, a differenza di Agamben, non ritenne mai il Sionismo un «tradimento» dell’essenza del Giudaismo, ma vide nell’Israele Stato nazionale il luogo di un rinvigorimento dell’Ebraismo: «Con la realizzazione del sionismo sono sgorgate le fonti della grande profondità del nostro essere storico, liberando nuove forze dentro di noi», e ancora: «Per quanto concerne l’ebraismo nello Stato d’Israele, esso è la forza vivente del popolo di Israele». 

Agamben concettualizza l’esilio e ne fa la cifra dell’Ebraismo, impiegando in modo scorretto e fuorviante alcuni concetti della Kabbalah lurianica. Come Lévinas e Derrida blandisce il presunto cosmopolitismo ebraico. In modo involontario, ripropone lo stereotipo antisemita dell’Ebreo errante, del luftmensch privo di ancoraggio al suolo. Il filosofo celebra quello che, un tempo, l’antisemita esecrava: l’inappartenenza, la mancanza di fondamento nazionale, e lo fa soprattutto ora, alla luce nera del Sionismo realizzato, del ritorno degli Ebrei alla loro patria storica. 

Giorgio Agamben, come George Steiner o Enzo Traverso, esprime quella forma specifica di antisemitismo «progressista», dagli accenti marcioniti, che raffigura come demoniaca la «carne» della forma-stato. Gli Ebrei avrebbero rinunciato al privilegio della volatilità chagalliana, pertanto, a causa di questo «tradimento», si ha di nuovo il permesso di odiarli, non più come «razza» ma come «Stato». 

Gli Israeliti dovrebbero abitare solo lo spazio della testualità e della morale. Erranza senza fine. A casa ovunque perché non c’è nessun dove. Non diversi dalle statuette di hassidim vendute come souvenir nel rynek di Cracovia. Essi hanno la colpa di aver reintrodotto in un mondo pensato in marcia verso l’universalismo lo Stato nazionale. Gli intellettuali come Agamben hanno eletto Israele a capro espiatorio del peccato supremo, quello della statualità. 

Questo tentativo di recidere il legame dell’Ebraismo con la terra di Israele serve a legittimare e normalizzare la colonizzazione arabo-musulmana della Palestina, interrotta fattivamente dalla nascita del moderno Stato ebraico, ma ripresa simbolicamente dall’UNESCO, che da anni tenta di negare ogni collegamento tra Gerusalemme, gli Ebrei e la loro terra ancestrale. 

Il tutto procede, parallelamente e senza apparente contraddizione, con l’insistenza sulla necessità morale e politica di uno Stato palestinese, non importa quanto teocratica e identitaria potrà essere tale entità. 

L’interpretazione distorta fornita da Agamben ha il solo pregio di essere genuina. Egli afferma una verità che i critici contemporanei di Israele raramente osano menzionare (almeno in pubblico): sarebbe stato meglio per gli Ebrei morire tutti nelle camere a gas di Auschwitz piuttosto che fondare uno Stato.  

Eric Voegelin invitava lo storico delle idee a «esplorare lo sviluppo dei sentimenti che si cristallizza nelle idee, e mostrare la relazione tra le idee e la matrice dei sentimenti in cui sono radicate». Le idee di Agamben affondano in un sentimento preciso: il desiderio di un mondo dove il Giudaismo abbia perso ogni connotato specifico, un mondo senza Ebrei. Judenfrei. 

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