Editoriali

Le Uova del Serpente: La decisione di Trump di lasciare la Siria

Quando, l’aprile scorso, Donald Trump annunciò il prossimo ritiro del contingente americano in Siria (2000 uomini), la notizia non fu presa bene in Israele e nemmeno al Pentagono. Certo, per la base elettorale più hardcore del presidente, quella per la quale lo slogan American First significa farsi gli affari propri a casa e lasciare gli alleati a sbrigarsela da soli, il rientro dei marines da scenari esotici è un segno tangibile di quanto Trump avrebbe promesso al paese, prima noi e dopo gli altri, ma molto dopo. Ora, come ha ricordato Abe Greenwald su Commentary, le guerre degli Stati Uniti all’estero e le operazioni di polizia militare e di controllo, per quanto odiose possano essere in contesti estremamente farraginosi e confusi, sono necessarie alla stessa sicurezza interna. Non si vince la guerra al terrorismo islamico abbandonando territori nei quali può prosperare impunemente e preparare così operazioni in Occidente, USA compresi.

La decisione di Donald Trump di lasciare la Siria, in un momento assai critico, dichiarando in modo roboante e non corrispondente alla realtà, che l’ISIS sarebbe stato sconfitto (si calcola che vi siano ancora tra i venti e i trentamila miliziani operativi nel paese), può accontentare i trumpiani fideisti per i quali il Commander in Chief, come il Duce, non sbaglia mai, e chi pensa che gli USA possano essere veramente forti chiudendosi a riccio su se stessi e rinunciando a governare il caos fuori dai suoi domini, ma di fatto accontenta soprattutto la Russia di Putin, estremamente soddisfatta di questo regalo che incorona definitivamente l’autocrate del Cremlino come il lord protettore della regione, l’Iran, che può liberarsi dalla presenza assai indigesta di uno storico nemico e la Turchia, che fin dal principio ha viso assai malevolmente l’alleanza sul terreno tra Stati Uniti e miliziani curdi. Ora, i curdi, essenziali per i successi americani contro l’ISIS, si trovano sguarniti del loro alleato principale e più importante.

Israele, dal canto suo, abbozza e non manifesta ufficialmente il proprio disappunto per non urtare troppo il presidente americano che finora è stato assai generoso, ma, salvo poche eccezioni, la maggioranza dei commentatori e degli esperti militari, non hanno nascosto una viva preoccupazione per una decisione che priva lo Stato ebraico di un argine all’avanzata dell’Iran in Siria. Certo, si annuncia che si provvederà lo stesso a salvaguardarsi, così come gli USA non modificheranno la loro storica alleanza, ma fino all’ultimo si è sperato che l’annuncio di Trump di un rientro dei soldati si piegasse al riconoscimento di una prospettiva geopolitica più ampia di quella che vedeva nella “sconfitta” del Califfato l’unico obbiettivo da portare a casa.

Non è un mistero che il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton lavorasse in questo senso e fosse per prolungare la missione in Siria allo scopo di arginare l’Iran e incunearsi nei progetti russi e turchi. Ed è stata soprattutto la Turchia a spingere affinché i soldati americani si ritirassero. La cedevolezza americana ai desiderata di Erdogan, sotto minaccia di un possibile rischio per i soldati americani sotto l’onda d’urto di una avanzata turca, certifica che le preocupazioni elettorali, nel breve periodo, hanno la meglio su quelle strategiche dalle conseguenze molto più dirompenti nel lungo periodo.

Le dimissioni del Segretario alla Difesa, il Generale John Mattis, non giungono dunque di sorpresa, anzi, sono il corollario inevitabile di una scelta che è in palese contraddizione con l’atteggiamento muscolare e perentorio rivolto all’Iran, che, da una parte, si colpisce con sanzioni dure a seguito dell’uscita dall’accordo nucleare voluto da Obama, dall’altra si ricompensa lasciando che a gestirlo in Siria sia la Russia, il suo alleato principale in Medioriente.

Per Mattis, le alleanze non solo non possono essere disattese, facendo esse parte di una delicata e fondamentale struttura geopolitica globale che tutela gli interessi americani, ma sono il riconoscimento stesso della forza americana, della sua credibilità e stabilità. La più grande superpotenza del pianeta può essere “first”, prima, anche e soprattutto in virtù di esse.

E spericolati sono gli isolazionisti che si illudono che una volta a casa, i soldati americani renderanno il paese più sicuro, invece di restare in una regione disseminata di uova di serpente, che vanno schiacciate soprattutto lì prima che vengano esportate e si possano schiudere altrove, anche, come è già successo, “in the land of the free and the home of the brave”.

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