La invocata terza Intifada che avrebbe dovuto fare seguito alla dichiarazione di Gerusalemme capitale di Israele da parte di Donald Trump non c’è stata. A parte iniziali proteste, la più vistosa a Gaza nei giorni subito dopo l’annuncio, sponsorizzata dall’Iran finanziatore principale di Hamas, e proteste circoscritte in Cisgiordania, poco altro si è visto.
La frettolosa convocazione da parte del solito bullo Erdogan di un summit straordinario dell’OIC (Organizzazione della Cooperazione Islamica) a Istanbul corredata da dichiarazioni di ufficio di unità islamica e bellicosi proclami dello stesso rais turco ha fatto il paio con il voto contrario all’Assemblea Generale dell’ONU contro la decisione USA, a cui l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, ha risposto con un “ci ricorderemo”.
La realtà bussa amara alla porta dell’Autorità Palestinese, mostrandone lo scarso appeal che essa ha sul mondo arabo, ormai stanco da molti anni del capobastone di Ramallah e della sua cricca, stanco di una questione che non tiene più banco nelle priorità di stati fondamentali per coagulare il consenso contro Israele, come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania.
Oggi il principale sponsor della “lotta antisionista” in Medioriente è la Repubblica Islamica iraniana, lo stato che l’Amministrazione Trump ha riqualificato, dopo la luna di miele tra il regime di Teheran e Barack Obama, come il principale stato terrorista islamico. Senza la sponda dell’Iran che finanzia e incita alla lotta contro Israele, Abu Mazen e compagnia si troverebbero completamente abbandonati a loro stessi.
L’ennesima tirata per i capelli nei loro confronti è arrivata con la recente dichiarazione americana: se la dirigenza palestinese non si siederà a un tavolo negoziale con Israele, gli USA taglieranno i fondi all’UNRWA, l’ente ONU creato apposta per provvedere al mantenimento permanente dei “rifugiati” palestinesi, gli unici al mondo che ereditano tale statuto di generazione in generazione. Gli USA, da soli, sono il maggiore finanziatore di questo ente parallelo venuto in essere unicamente a scopo politico con la finalità di ricattare lo Stato ebraico. Basta guardare i bilanci pubblici e verificare le proporzioni degli investimenti, soprattutto quelli dei paesi arabi per rendersi conto nel modo più tangibile di quanto poco essi investano in questa realtà.
La musica è cambiata in Medioriente, e se qualche mese fa era ancora poco chiara quale fosse la direzione che avrebbe preso questa presidenza americana, ora si può dire che dopo la dichiarazione su Gerusalemme frutto di lunghi mesi di lavoro diplomatico con Israele e gli stati sunniti, in primis l’Arabia Saudita, Trump ha rafforzato notevolmente la posizione negoziale dello Stato ebraico, cestinando senza appello l’impostazione politica del suo predecessore, fondata su una critica costante e pregiudiziale nei confronti di Benjamin Netanyahu e delle sue politiche.
La determinazione di Trump nel cambiare le carte in tavola va di pari passo con la sua manifesta indifferenza nei confronti delle reazioni della comunità internazionale, Europa in testa, sostanzialmente in sintonia per otto anni con la volontà di Obama di mettere Israele all’angolo privilegiando l’Autorità Palestinese e, al contempo, di riqualificare l’Iran, da stato canaglia a stato di cui potersi fidare. Ed è l’Iran, la principale minaccia per la sicurezza di Israele e la stabilità mediorientale, nonché per gli interessi americani e sunniti, l’obbiettivo da logorare, contenere, e idealmente abbattere del nuovo approccio politico mediorientale statunitense. Nuovo ma in realtà vecchio, o meglio, consolidato, perché fino a Obama, l’Iran, dal 1979 in poi, è sempre stato percepito come uno dei nemici principali degli Stati Uniti. Donald Trump è dunque in linea di continuità con il quadro di riferimento tradizionale della politica estera americana, forzata da un contorcimento contro natura radicale dall’amministrazione Obama, la più ideologicamente refrattaria al ruolo politicamente egemone degli Stati Uniti sulla scena mondiale.
America First significa, declinato al di fuori della sua valenza populistica ed elettorale, proprio questo, configurare la politica degli Stati Uniti sull’assetto delle proprie coordinate classicamente repubblicane, ovvero declinarsi come la principale potenza economica e militare, sufficientemente sicura di sé da risultare risoluta ed arrogante.
Le esortazioni di Trump rivolte al popolo iraniano a liberarsi dal regime teocratico che lo domina da quasi quarant’anni, insieme al suo ruvido atteggiamento nei riguardi dell’Autorità Palestinese, fanno parte dello stesso approccio pragmatico e realista, poco propenso a concedere qualcosa a chi è considerato fondamentalmente inaffidabile e dalla parte sbagliata della storia. Il linguaggio degli “hard facts” e della concretezza è da sempre il più persuasivo in Medioriente.