L’acceso dibattito che si è aperto, nelle ultime settimane in Israele e tra gli ebrei della diaspora, in merito alla riforma della giustizia ha messo in evidenza un aspetto critico del pensiero di una parte dell’opinione pubblica: “non è l’idea in sé ” che è sbagliata ma è “colui che la esprime”.
In molti dibattiti si è sentito dire che “non è tanto il contenuto della riforma che non va bene ma è chi la propone che non è idoneo a farla”. Questo modo di pensare ha portato i dibattiti a indirizzare il focus del discorso dal contenuto della riforma (praticamente sconosciuto ai più) ai proponitori della stessa, anzi non proprio ai promotori (i parlamentari del Likud Rothman e Levin) ma su due esponenti ultranazionalisti della coalizione governativa: Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
In pratica la tesi è la seguente: la riforma va bocciata a prescindere dal suo contenuto e dal fatto che la Corte Suprema abbia usurpato le prerogative della Knesset da quasi trent’anni, creando di fatto una distorsione dello stato di diritto del paese, perché essa – la riforma – è inficiata dalla presenza al governo di Ben Gvir e Smotrich.
Non c’è dubbio che Ben Gvir e Smotrich siano estremisti nelle azioni e nelle parole ed è doveroso mettere in rilievo e condannare diverse loro esternazioni dai tratti omofobi e misogini ma è perlomeno singolare che questi stessi tratti omofobi e misogini presenti nel partito arabo Ra’am di Mansur Abbas non hanno fatto gridare allo scandalo nessuno quando sono entrati nella coalizione di governo Bennet/Lapid. Anzi, la presenza del partito islamista è stata salutata come un grande successo della democrazia israeliana. Quindi il problema non è tanto nel nazionalismo accentuato o nell’omofobia e misoginia ma piuttosto in chi, in questo specifico governo, se ne fa portavoce.
Un’altra critica ricorrente rivolta alla proposta di riforma della giustizia è quella basata sull’assunto che se passasse potrebbe portare a una “dittatura della maggioranza”. In pratica, i critici della riforma sostengono che potrebbe verificarsi una “dittatura” con solo 61 parlamentari sui 120 della Knesset. Questo perché il sistema parlamentare israeliano è monocamerale e quindi non avrebbe un giusto contrappeso come ad esempio in Gran Bretagna, dove, come in Israele non c’è una Costituzione ma ci sono due camere.
In Gran Bretagna, va detto che la Corte Suprema non ha minimamente i poteri della Corte israeliana quindi, il contrappeso al potere dell’esecutivo risiede, dicono i critici, sul sistema bicamerale meno incline ad essere “dispotico” rispetto a quello monocamerale come in Israele. Tuttavia anche il sistema inglese presenta le sue criticità presenti di fatto nel sistema elettorale. In Gran Bretagna, infatti, il sistema elettorale è di tipo maggioritario e non proporzionale come in Israele. Questo significa che in ogni collegio elettorale basta ottenere un voto in più dell’avversario per fare incetta dei seggi di rappresentanza. Teoricamente, un partito che ottiene pochissimi voti in più in ogni collegio può ottenere una vittoria elettorale complessiva soverchiante anche se il conteggio dei voti pone la maggioranza al 51% e la minoranza al 49% su base nazionale. Questo sistema potrebbe portare ad una rappresentanza nelle due camere del parlamento ad avere una maggioranza dell’80% o del 90% a favore della maggioranza mentre nella realtà gli elettori sono solo il 51%. E questa non sarebbe una “dittatura della maggioranza”?
Gli inglesi hanno scelto questo sistema per dare una maggiore forza all’esecutivo per potergli permettere di governare con forza per una intera legislatura ben sapendo che se non governano bene, in quella successiva il governo verrà sostituito. Ma chi garantisce agli elettori che un governo non si doti di leggi liberticide e diventi una dittatura? Nessuno. Infatti, la Corte Suprema britannica non ha il potere di ultima parola sulle leggi dell’esecutivo. Però il sistema ha retto per centinai d’anni.
In Israele è presente un sistema di bilanciamento nella legge elettorale stessa: essendo un proporzionale pura, un partito non può vincere da solo le elezioni ma per forza deve formare una coalizione, almeno è così dagli ultimi 20 anni. Questo fatto ha portato, da un lato, ad una forte instabilità politica (6 tornate elettorali in meno di 10 anni) ma d’altro ha garantito una democrazia molto combattiva che dimostra che chi vince non è un monolite in grado di decidere di imperio le leggi a proprio piacimento, ma deve trovare per forza dei compromessi.
Altri sostengono che con questo sistema, i piccoli partiti (molti dei quali estremisti come quelli di Smotrich e Ben Gvir) possono tenere in “ostaggio” partiti più grandi e moderati. Può senz’altro essere vero, ma è altrettanto vero è che una legge deve passare con i voti di tutta la maggioranza e quindi il compromesso va trovato sempre, a meno che non si reputi che essendo presenti in una coalizione di governo delle formazioni oltranziste, il governo tutto ceda ad esse. Teoricamente è possibile, ma non è mai successo. Si tratta di una pura ipotesi di scuola, confinata nella percezione più che nei fatti.
Quando Israele nacque nel 1948, i partiti erano meno di quelli attuali e le maggioranze erano più “forti” ma nessuno mise mai in dubbio la natura democratica dello Stato. Il partito laburista (prima come MAPAI) governò ininterrottamente per 29 anni e all’epoca la Corte Suprema non godeva certamente delle estese prerogative che ha assunto negli ultimi trent’anni.
Vi è un altra percezione fallace della realtà e riguarda chi sostiene che la proposta di riforma della giustizia se passasse minerebbe la credibilità internazionale del sistema giudiziario israeliano. Ciò accadendo, organismi internazionali come il Tribunale Penale Internazionale si sentirebbero più motivati ad indagare politici e militari israeliani. Perché questa paura è di fatto infondata? Per la semplice ragione che il Tribunale Penale Internazionale ha già formalmente iniziato un procedimento per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di politici e militari israeliani. E’ accaduto ufficialmente dalla primavera del 2021 tramite la solerte giudice Fatouh Bensouda. Il nuovo procuratore, Karim Khan, che ha sostituito la Bensouda lo scorso dicembre, in un incontro pubblico ha fatto sapere che è una “sua priorità del 2023 recarsi in Palestina” per verificare in loco le prove delle accuse.
Alla luce di ciò appare evidente che già ora, e senza la riforma giudiziaria, il sistema giudiziario israeliano agli occhi del Tribunale Penale Internazionale è privo dei minimi requisiti dello stato di diritto altrimenti avrebbe immediatamente cassato il procedimento penale (che non ha nessuna base legale).