Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

Le fondamenta dell’antisemitismo progressista

In tempi recenti sono emerse le affermazioni antisioniste di alcuni candidati del Partito Democratico alle prossime elezioni. Non si tratta di una novità dato che, in passato, il PD ha fatto eleggere presso il comune di Milano una sostenitrice dei Fratelli Musulmani, Sumaya Abdel Qader.  

Per comprendere l’istintiva avversione dei progressisti per Israele è necessario ripercorrere, seppur sinteticamente, la storia del rapporto tra la sinistra e gli ebrei. Una narrazione che non può non cominciare dalla Rivoluzione francese, che introdusse le nozioni di «destra» e «sinistra».

Il 28 settembre 1791, durante la prima fase della rivoluzione, l’Assemblea Nazionale Costituente di Francia emancipò la popolazione ebraica. I Lumi offrivano agli ebrei l’emancipazione civile e individuale attraverso l’assimilazione. Per tutto il corso dell’Ottocento, le forze democratiche, liberali e socialiste propugnarono la causa dell’emancipazione civile degli ebrei. 

In Italia, in tal senso si espresse Giuseppe Mazzini, che attraverso due articoli sulla rivista «Jeune Suisse» auspicò l’abolizione delle interdizioni che impedivano agli ebrei il pieno esercizio della cittadinanza. Carlo Cattaneo, invece, diede alle stampe «Le interdizioni israelitiche», col medesimo intento di Mazzini, mentre Massimo D’Azeglio pubblicò un opuscolo sull’emancipazione degli ebrei nel Piemonte sabaudo. Le aspirazioni vennero realizzate da Carlo Alberto di Savoia, nel 1848, quando riconobbe i diritti civili ai sudditi non cattolici del Regno di Sardegna.  

Durante l’Ottocento fino al primo Novecento, i partiti della sinistra italiana, segnatamente il Partito Socialista e quello Repubblicano, adottarono una linea favorevole all’emancipazione degli israeliti mediante l’assimilazione. In particolare, il Partito Socialista Italiano, influenzato dal materialismo storico, inquadrò l’antisemitismo come fenomeno oscurantista e reazionario, uno strumento della classe dominante per spezzare l’unità dei lavoratori, destinato a scomparire nella società senza classi.  

Più sfumato fu il rapporto dei socialisti con il sionismo, movimento fondato da Theodor Herzl nel 1897, nato per dare uno stato nazionale al popolo ebraico. Intellettuali ebrei e socialisti come Cesare Lombroso e Felice Momigliano non videro alcun conflitto ideologico tra sionismo e socialismo. Ma tranne queste eccezioni, gli esponenti della sinistra rimasero assimilazionisti e scettici verso il sionismo, qualificato come «nazionalismo ebraico» in contrasto con l’internazionalismo operaio.  

Durante il convulso Affaire Dreyfus, la stampa socialista europea rimase sostanzialmente indifferente al caso, visto come uno scontro interno alla borghesia.  

Alla vigilia del Primo conflitto mondiale, sulla scia dell’orientamento assunto dalla Seconda Internazionale, il PSI  prese le distanze dal sionismo, considerato espressione della borghesia ebraica, e auspicò che gli ebrei si unissero al proletariato per condividere la lotta in nome della società socialista. I socialisti italiani rimasero prigionieri di due stereotipi, da un lato la simpatia per l’ebreo povero e oppresso dello Shtetl; dall’altro l’avversione per il ricco banchiere assimilato, non di rado equiparato allo sfruttatore capitalista. 

La riflessione della sinistra, tra XIX e XX secolo, intorno alla questione ebraica è stata pesantemente influenzata da Karl Marx. Figlio di un ebreo convertitosi al cristianesimo, Marx non ebbe mai alcuna simpatia per l’ebraismo, reputato «madre di tutte le illusioni». 

Nel 1844, per gli «Annali franco-tedeschi», scrisse il saggio «Sulla questione ebraica», in risposta a Bruno Bauer che, in uno scritto precedente, aveva delineato come soluzione al problema dell’emancipazione degli ebrei l’eliminazione della religione dalla sfera statale e la sua riduzione all’ambito della vita privata degli individui. 

Nel suddetto saggio, Marx delinea l’ebraismo come religione del denaro, scrivendo «Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro». Per il pensatore di Treviri, l’ebraismo è la fonte dell’alienazione umana: «Il Dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un Dio mondano. La cambiale è il Dio reale dell’ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria. Ciò che si trova astrattamente nella religione ebraica, il disprezzo della teoria, dell’arte, della storia, dell’uomo come fine a se stesso, è il reale, consapevole punto di partenza, la virtù dell’uomo del denaro». Per Marx, l’emancipazione degli ebrei, nel suo significato ultimo, coincide con la liberazione dell’umanità dall’ebraismo. 

L’identificazione, operata da Marx, tra alienazione capitalistica ed ebraismo, così come la sua convinzione che la rivoluzione sia destinata a sopprimere il giudaismo, avrà un’influenza nefasta sulla sinistra europea. 

 

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